Tuesday, February 14, 2017

Moonlight II

Sono quasi quattro ore di macchina da Philadelphia alla distesa di alberi della Rothrock State Forest. E' partito all'alba, con la berlina della signora Chang. Una vecchia auto affidabile, che si trascina attraverso la foschia dell'inverno, la neve ancora depositata in parte sui campi e sulle distese di territorio della Pennsylvania. Ha imparato a memoria la strada che dalla statale principale si stacca sulla sinistra e si perde all'interno del bosco. Bisogna guidare almeno tre miglia sulla strada sterrata, prima di arrivare ad un'altra svolta. La via diventa quasi invisibile, deve guidare la berlina a passo d'uomo per non distruggere le sospensioni, prima che la sagoma solitaria di una casa in legno sepolta nel bosco di pini faccia capolino. Non è un casa grande. Ha una veranda, con una piccola altalena caracollante, la porta doppia con la zanzariera interna per le estati calde, il camino che fuma ora che in inverno è coperta di neve. Un ceppo con un'ascia che testimonia il fatto che qualcuno accende la stufa. E' anche consapevole che quel qualcuno lo ha visto arrivare. Forse lo teneva d'occhio con il binocolo da miglia di distanza. Sa che non ha riconosciuto l'auto e che la ragione per cui la porta non si è ancora aperta è che dietro una tenda, dietro ad una finestra, Tom aspetta con il fucile puntato che lui apra la portiera. E' la ragione per cui spegne il motore con cautela, prima di far scattare la porta dal lato del guidatore e fare capolino con le mani alzate bene, in vista. Si fa riconoscere, senza avanzare. Come aveva previsto, passano una decina di secondi, prima che la porta della casetta di legno si spalanchi e la sagoma solida, imperiosa e dura del vecchio Tom faccia capolino sulla soglia con un fucile da caccia tra le braccia, la canna puntata verso il terreno. Ha i capelli lunghi e grigi, il volto solcato dai segni del tempo. Per un paio di istanti, rimangono a fissarsi a distanza.
"Cristo. Stavo per piantarti un proiettile in mezzo agli occhi. Che macchina di merda hai preso?"


L'interno della casa di Tom è spartano come si potrebbe aspettarsi da un uomo come lui, ma inaspettatamente pieno di oggetti. Affastellati, impolverati. Fucili da caccia, teste di cervo, trofei, coperte fatte a mano forse dalla sua compagna prima che morisse. Era una donna nativa, di sangue Shawnee. Libri, la maggior parte in condizioni pietose. Selle di cavallo, ciotole di metallo e pentolini ammassati sulla piccola cucina a gas. E' la casa di un uomo solo per scelta e per destino. Il bollitore fischia. Tom mette una ciotola a terra. Due cani si avventano a divorarne il contenuto, avanzi di carne cruda. Sono entrambi cani muscolosi e poco avvezzi alla dolcezza, probabilmente dei meticci ma con qualche tratto da Rottweiler. Ross li guarda mangiare, mentre Tom versa del caffè color pece in due tazze sul tavolo di legno spesso.
"Sei venuto a salutarmi prima della fine del mondo?" Tom va dritto al punto, con un ghigno brutale e divertito.
"Qualcosa del genere."
"Il mondo è stato sull'orlo della fine da quando è stato creato. E' una vertigine a cui finisci con l'abituarti facendo questo lavoro."
Gli ricorda qualcosa di simile che gli ha detto Connor. Ma Tom non ha perso il senso di gravità. Nel volto dell'uomo si riesce a vedere un fuoco stanco e feroce, come se si preparasse alla guerra ogni mattina, anche ora che vive come un eremita. Per un istante, si ritrova a chiedersi se avrà gli stessi segni, da vecchio. Sempre che ci arrivi.
"Non sembri agitato."
"Nemmeno tu." Tom sogghigna, fissandolo e allungandogli la tazza. C'è una pausa di silenzio, prima che prosegua. "..Nah. Non ho niente da perdere in ogni caso. Ora mi preoccupo solo della mia casa, dei miei cani e del mio cavallo."
Il caffè è corretto con del whisky. Per qualche ragione non se ne stupisce. Lo apprezza, anche se non è ancora ora di pranzo. Il vecchio lo guarda con gli occhi di chi non ha davvero bisogno di sapere come mai se lo è trovato in casa.
"I ragazzi come la stanno prendendo?" Gli chiede. Austin, Iphigenia.
"Effie non ha paura di nulla. E' ottimista o smidollata, forse entrambe. Austin è arrabbiato e finge di essere un uomo." La risposta strappa a Tom una risata pacata, lieve, cruda.
"Sono gli ormoni. A diciotto anni fingevamo tutti di essere uomini."
"Credo di avergli spezzato il cuore."
"Meglio. Fa bene. Lo fa crescere. Meglio che glielo spezzi tu e che glielo spezzi spesso, piuttosto che se lo faccia spezzare da qualche stronzata priva di valore. Mio padre mi ha spezzato il cuore cosí spesso che l'ho odiato per vent'anni, prima di capire perchè lo faceva. Me lo spezzava a cinghiate."
"Non sono suo padre. Non lo sono mai stato."
"Non che abbia scelta. Non ha nessun altro." 
Le verità di Tom sono come il cuoio indurito. Prive di compromessi e di grigi. Sono assolute. I cani si scuotono e si leccano i baffi, prima di sgattaiolare ai suoi piedi e lasciarsi cadere a terra con la devozione delle bestie selvatiche.
"Com'è che non usi mai l'istinto?" Chiede di colpo l'uomo. Sulle prime rimane interdetto, non riesce a fare nulla se non fissarlo in silenzio. Tom lo fissa come se volesse tirargli fuori qualcosa dalla bocca a mani nude.
"L'istinto. Usi sempre quella cazzo di testa. Sei davvero un mistico di merda."
"Sono un medico." Ribadisce, come se fosse una spiegazione. 
Una risposta che sembra dare sui nervi a Tom perchè sputacchia uno sbuffo ironico e ringhia. "Ah!" Un verso di sprezzo, prima di piegarsi col busto verso di lui.
"Sei un fottuto demone. Smettila di rimanere dentro la tua testa tutto il tempo e prova ad ascoltare la pancia ogni tanto. Hai guidato quattro ore per venire a berti un caffè e chiedermi se sono preoccupato per la fine del mondo? Non lo sono. Contento? Puoi anche risalire in macchina e tornartene da dove sei venuto. Ma non sei qui per questo. Sei venuto perchè stai iniziando a capire come stanno davvero le cose e ti fa paura. Hai bisogno di un vecchio umano alcolista che vive in mezzo ad un bosco per dirti che ti conviene iniziare ad essere onesto con te stesso se vuoi davvero fare una qualche differenza. Hai talento, Ross. Usalo. Per quando avrai finito avrai tanto di quel sangue sulle mani che se usi troppo la testa, la perderai. Fallo solo quando serve davvero."
Rimane in silenzio a fissarlo. Riesce a deglutire un bolo di saliva ed è costretto ad ingoiare del caffè, ma la fronte si contrae. Sente gli occhi piccoli e scuri di Tom, come quelli dei cani, passargli attraverso il petto. Distoglie lo sguardo, si sente di colpo vulnerabile.
"Che cosa c'è, Ross?"
"Niente."
"Che cosa c'è?"
"Niente."
"Bullshits. Non hai paura per l'apocalisse. Hai paura per qualcos'altro. Cos'è?"
C'è un lungo silenzio. Lo fissa negli occhi. Tom sulle prime rimane sospeso, in attesa. Poi le labbra si distendono in un sogghigno amaro. Sempre più evidente, fino a che non diventa una risata bassa, gorgogliata e cruda. Scuote la testa, portando la tazza alla bocca.
"Ti sei fatto incastrare?" Lo dice usando le parole che si usano per parlare della polizia. Della prigione, dei nemici, quando ti catturano per giustiziarti, ma lui capisce cosa intende. E' a disagio e non riesce a negare.
"E' l'errore peggiore che uno come noi possa fare. Ma forse ti salva la vita. E' maggiorenne?"
"Vaffanculo, Tom." Una pausa. "E' Navajo. In parte." Non lo sa come mai sceglie di colpirlo sul vivo. Di affondare dove fa male, ma lo vede assorbire il colpo con il sogghigno che si fa più triste e dolce, scostando gli occhi. Lo vede masticare in silenzio l'onta di essersi fatto trovare con la guardia abbassata.
"Allora sei fottuto. Quelli della loro gente ti tengono per le palle. Non riesci più a fare a meno di loro." Lo borbotta a voce bassa.
Da qualche parte, sepolta in quella casa, c'è una vecchia foto della donna che gli ha toccato il cuore e ha finito col dannargli l'anima.


Sunday, February 12, 2017

Moonlight




Ha circa dodici anni. Servizi Sociali d'America lo ha riassegnato ad una nuova casa. Di nuovo. Non durerà molto, lo sa già. La casa è sovraffollata, sull'angolo di Jersey che si affaccia sull'Hudson, dalla parte che puzza. Fa freddo, non è ancora inverno ma le giornate si stanno accorciando e i ragazzini dormono con poche coperte, un lenzuolo. Qualcuno usa gli asciugamani per scaldarsi nelle ore dell'alba quando cala la temperatura. Sono in cinque, ammassati nella stanza. Un letto a castello, un letto singolo e due materassi. La camera è piccola e non si riesce a camminare sul tappeto di corpi. Una fabbrica di soldi per il sistema. Sente Luke, che ha qualche anno in più, masturbarsi sotto al lenzuolo, ribaltato dal lato opposto rispetto a lui credendo di passare inosservato. Non che a lui freghi nulla. E' troppo impegnato a stringersi in una posizione fetale per trattenere il calore. La mattina non riesce a lavarsi. Luke è uno di quei ragazzini benedetti dagli ormoni, a quattordici anni pare uno di diciotto. Lo spinge contro il lavandino e lui ci pesta la faccia con un suono sordo.

"Vattene, pezzetto di merda. Il bagno è mio."

"Non è giusto."

"Se apri ancora la bocca di spacco la testa, finocchio."

La porta gli si chiude sulla faccia dopo che viene spinto fuori dal bagno, seminudo. Non è certo della ragione per cui Luke abbia usato quella parola, a malapena sa cosa voglia dire, ma d'altra parte Luke la usa con tutti. Eppure lo disturba. Lo affascina e lo disturba, come quando ha visto un cane con una zampa sola trascinarsi nella periferia. Si veste in corridoio, in silenzio. I vestiti sono quelli di due giorni prima, ma riesce a rubare delle mutande pulite dalla stanza dei figli veri della donna che li tiene. Recupera uno zaino, scende in cucina, ruba del cibo in fretta, qualche pezzo di pane, prima che venga scoperto. Lo arraffa come le bestie affamate, anche perchè lo è davvero. Se lo infila tutto in bocca ed esce di casa. Non che gli piaccia andare a scuola, ma quantomeno gli danno da mangiare. Scuola è un altro posto in cui infilarsi e sopravvivere. Parla poco. Lo hanno detto tutte le insegnanti in ogni scuola in cui sia mai andato. E' un bambino silenzioso e maleducato, senza alcun senso del comportamento. Sottopeso, affilato ma fatto di muscoli nervosi. E' bravo a baseball. Corre veloce, più veloce degli altri. Forse perchè ha passato al vita a scappare da gruppi di ragazzini che volevano pestarlo. A volte lo prendevano, ma ha capito che loro si stancavano prima e quindi non fa altro che correre. E correre ancora. Correre più forte, un altro angolo, un'altra strada, senza guardarsi indietro fino a che non sente i loro passi rallentare, ansimando, fino a che si fermano. Lui sta ancora correndo.

Le insegnanti dicono che non è stato socializzato correttamente, come i cani del canile. Ma è intelligente. Quando studia, studia bene. Parla male, non si lascia disciplinare. Non piace agli altri ragazzini. Non è mai piaciuto a nessuno. E' uno di quei bastardi irlandesi di seconda o terza generazione, che figliano e poi abbandonano i bambini sulle scale della chiesa.

Insomma, a scuola non è una festa neanche lí. Luke va nella stessa scuola, una classe più in alto della sua. Non vede l'ora di andarsene da lí. Tanto Servizi Sociali d'America lo toglierà dall'affido se riesce a fare abbastanza casino da farsi lasciare di nuovo in mezzo alla strada. C'è solo un ragazzino che gli piace in quella scuola. Sta nella sua classe ed è molto timido. Parla poco, come lui, ma è gentile. Gli da sempre un pò del suo pranzo da portare a casa la sera. Si chiama Peter, ha una famiglia normale. La mamma di Peter a volte prepara due sacchetti del pranzo, uno anche per lui. Dev'essere bello avere una mamma come la mamma di Peter, l'ha vista una volta quando è andata a prenderlo. Aveva i capelli gonfi e luminosi nella luce del sole.

Quando arriva a scuola quel giorno attraversa il cortile in fretta, in silenzio. Luke sta con un gruppo di amici che hanno abbastanza paura di lui da fare tutto quello che dice. Li vede e li ignora, ma poi si accorge che stanno tutti ammassati intorno a qualcosa.

"Hey frocio! Frocio, guarda qui. Cazzo, voltati, guarda. Abbiamo fatto amicizia con il tuo fidanzato!"

Luke si sposta. Riesce a vedere la faccia di Peter sollevarsi dal pavimento del cortile, coperta di sangue. Le dita gli si stringono nel tessuto dello zainetto, che gli corre intorno alle spalle sottili. Non si avvicina. Non fa nulla. Si volta e prosegue. Sente gli occhi di Peter seguirlo, ma non si gira a cercarli. Però non cammina verso la classe. Cammina verso casa.

"Che c'è?? Scappi?? Sei un piccolo finocchio codardo, io lo sapevo! Giuro che in bagno non ci metti più piede! Ti rimanderanno in orfanotrofio per quanto puzzi!!"

La voce di Luke lo segue lungo la strada. Ma anche ora non si volta, fino a che non è abbastanza lontano da non sentirli più. Torna a casa. Sa che nella stanza dei figli veri uno di loro ha una mazza da baseball. Bella, l'ha desiderata molto, quando li guardava giocare in cortile. La donna è a casa, ma lui è sottile, sgattaiola fino alla stanza e prende la mazza. La infila in cartella, ne spunta una porzione come le spade dei samurai.

Non va in classe quel giorno. Si apposta ai campi da basket. Ci passano tutti dopo la campanella, per andare al parco, al vecchio centro commerciale e alle fermate degli autobus. Ci passa anche Luke e i suoi amici. Bisogna solo aspettare. Solo solo cinque ore.

E cinque ore passano. Lui ha tenuto lo sguardo basso e ha colpito l'aria con dei fendenti di mazza per valutarne il peso, il bilanciamento. E' una bella mazza e lui è bravo a baseball. La campana è suonata da cinque o sei minuti quando i ragazzini e le ragazzine iniziano a passare attraverso il campo da basket in cemento. Passa anche Peter. A testa bassa e tutto pesto. Lui lo guarda ma Peter non solleva gli occhi verso di lui. Li tiene bassi. Poi arrivano Luke e gli altri.

"Luke. Ehy, Luke?"


E' lui a richiamarlo. Si voltano tutti. Non solo Luke e i suoi scagnozzi, si voltano proprio tutti. Luke ride, anche i suoi amici, quando lo vedono avanzare brandendo la mazza.

"Ehy, frocio. Cos'è che vuoi fa-"

Ma non finisce la frase. E' una frase che non riesce a finire, per via del fendente violento e privo di esitazioni che Ross gli assesta sulle ginocchia. Un fendente calcolato per spezzargli la rotula. Un fendente carico di una forza inaspettata per la sua stazza e che gli provoca un gemito strozzato prima di fargli perdere l'equilibrio e mandarlo a terra. I suoi amici non ridono più, il cortile è immobile per la sorpresa. Peter ha la bocca spalancata e le mani stritolate intorno alle bretelle dello zaino. I presenti non hanno tempo di realizzare cosa stia succedendo, che Ross solleva di nuovo la mazza. La abbatte di nuovo su Luke, ma questa volta sul volto. Una volta. Due volte. Tre volte. Sono colpi brutali, in cui mette tutta la forza cruda della sua rabbia, la stessa che ha messo nel correre. Gli amici di Luke iniziano ad indietreggiare quando gli schizzi di sangue raggiungono le loro divise da 4 dollari e mezzo. Un brivido di paura attraversa i loro volti nel guardare un ragazzino che è la metà di loro massacrare qualcuno che rispettavano per pigrizia. Smette di colpire solo quando gli fanno male le braccia e si rende conto che Luke è ridotto ad una maschera tumefatta che lascia uscire solo un rantolo sofferente. Solo a quel punto, solleva la mazza insanguinata come un trofeo.

"How do you like me now, bitch?"

Lo urla. Fa un passo indietro sollevando gli occhi sulla massa paralizzata dei ragazzini del quartiere, su Peter, che sembra diventato una statua di sale. La mazza ancora tenuta in alto, solleva anche l'altro pugno.

"C'è qualcun altro che ha voglia di fare lo stronzo?"


Il silenzio. Lui lascia cadere la mazza a terra, va a recuperare lo zaino che ha abbandonato vicino al muro di cinta. Se lo rimette sulle spalle e ricomincia a camminare verso la fermata dell'autobus.


Di colpo, alle sue spalle, sente un boato. Ci sono fischi, applausi e urla. Peter gli corre dietro e lo affianca, con un sorriso che fatica a trattenere. Camminano in silenzio, senza dire nulla, fino a che l'amico chiede qualcosa con una strana adrenalina.

"Merda. E se lo hai ammazzato?"

"Lo spero."

Non lo ha ammazzato. Ma per il poco tempo rimanente prima che Servizi Sociali lo spostassero di nuovo, ha fatto la doccia tutte le mattine. Per primo. Luke, al bagno non si è mai avvicinato. Un giorno ha sentito la donna urlare, dicendo che puzzava di piscio ed era disgustoso. Ha sorriso, sul proprio materasso, fissando il soffitto.

Tuesday, January 24, 2017

Chaos Lock

Gli soffia in faccia un vento gelido. Squassa l'erba grigia di una collina impervia. Il cielo è denso di nubi grigie, che premono sulle loro teste. Camminano in fila indiana, uno dietro all'altro in una processione silenziosa e mesta, solenne. Sono vestiti di nero, tutti. Con degli abiti di una foggia che non riconosce immediatamente. Non sono completi moderni. Sono tuniche ricamate, dall'aspetto prezioso, non troppo distanti dai bei vestiti che ha visto addosso a Samael, a volte. Lui è in testa alla processione. Le dita strette intorno ad una torcia che sfrigola, in fiamme. Si gira, alla ricerca di altri volti. Appena alle sue spalle, china in un pianto silenzioso e sottile, c'è Iphigenia. La ragazza tiene gli occhi bassi e ha il volto pallido, i capelli sciolti in una tristezza silenziosa che sul suo viso di porcellana è quasi bella. Aggraziata. Un senso di angoscia soffocante gli riempie il petto come acqua di mare. Dietro ad Iphigenia, i capelli biondi di Austin. Il ragazzo guarda all'orizzonte, nemmeno temesse un attacco di arpie dal cielo. Ha un velo di timore negli occhi che cerca di ingoiare. Ma ci sono molte altre persone che camminano dietro di loro. Andrea. Sulle prime non la riconosce. La ragazza ha il volto coperto da un velo nero scosso dal vento come una nave alla deriva. Piange singhiozzi spossati, sorretta da un'altra donna. Una vecchia, che lui non riesce a riconoscere. Sente il proprio cuore battere più forte, come i tamburi di guerra. Connor cammina dietro alle donne e gli allunga addosso uno sguardo silenzioso. Forse preoccupato. Lo guarda come si guardano i pazzi, o i moribondi. Con la paura silenziosa di quello che sta per succedere. Dietro di loro, Red Face, Retribution. Nemesis. Una catena silenziosa di teste basse. Sente il respiro accelerare nello sforzo furioso di trovare un volto. L'unico che manca all'appello. Nella processione ci sono persino visi che non ha mai visto prima, come se un intero villaggio si fosse riversato in quella scarpinata votiva, i volti scavati dalle fatiche. 
"Dov'è lui?"
Lo chiede di colpo con un affanno furioso che gli si affossa in gola, verso Iphigenia. La bambina si ferma, atterrita da quella domanda, come se avesse di fronte un uomo che sta perdendo il senno. Lo sterno sottile si affloscia in un respiro con cui solleva la mano a posarla sul suo polso. Lo afferra, le dita che sollevano una gonna lunga e scomoda per arrampicarsi sulle scogliere. Lo usa per sorreggersi mentre stacca il tessuto dal fango e avanza. E' bellissima. Gli si accosta con lo sguardo pieno di pena, ma non sembra in grado di parlare. 
"Siamo quasi arrivati, manca poco." Mormora alla fine, con il tono di chi spinge un vecchio di nuovo in carreggiata, una lacrima le solca il viso. Con un cenno del capo, indica la sommità della collina, battuta dal vento. Con un brivido, lui ci scorge una struttura. Sembra una catasta di legno, regolare. Si rimette a camminare, tirandosi dietro la ragazza, la processione, il villaggio. Ma con una fretta diversa. Inciampa. L'orrore di una confusione in cui sembra ripescare memorie che non sapeva di avere, fino al momento in cui è abbastanza vicino da toccare la legna. 
E' una pira. Qualcuno l'ha fatta bella. Ci ha messo dei fiori. Ci ha messo dei nastri. Sente la folla dietro le sue spalle aprirsi a mezzaluna e farsi attorno alla struttura. Andrea sembra perdere sostanza nelle ginocchia. Una folata gelida lo investe, viene dal mare. Vede l'oceano aprirsi oltre il bordo di una scogliera. Ma in cima alla pira, il corpo silenzioso di Nicholas giace ben vestito e composto, in un immobilismo che non può che essere dovuto alla morte. Come uno schiaffo, il ricordo del momento in cui ha sentito la vita abbandonarlo mentre lo teneva tra le braccia gli si infila tra le costole. Lo ha visto. Era lí. Lo ha stretto mentre se ne andava. Ricorda la mano dell'altro sollevarsi e cercare il suo viso. 'Insieme.'
Non fa nemmeno in tempo a registrare il fatto che Nicholas sulla pira non è verde. La sua pelle è pallida ma naturale. E' un dettaglio che non registra nemmeno, schiacciato sotto la portata di un dolore lancinante. E' rabbia. Solitudine. Disperazione. Sente la propria voce gridare, le proprie dita aggrapparsi alla legna, graffiarla. Delle mani si allungano per provare a fermarlo, per tenerlo fermo. 
No. Sente quell'unica parola lasciargli il petto in grida orrende. No.
Alle sue spalle, la voce elegante e dolce di Iphigenia si solleva in un canto di cui non capisce le parole. E' una lingua che non riesce a ricordare, o a comprendere. O forse, le parole perdono significato nella furia confusa del suo dolore. Ma è una canzone triste. Forte. La ragazza sembra impegnarsi perchè non le tremi troppo la voce. No, le parole sono inglesi. 

Oh all the comrades that e'er I've had
Are sorry for my going away
And all the sweethearts that e'er I've had
Would wish me one more day to stay
But since it falls unto my lot
That I should rise and you should not
I'll gently rise and I'll softly call
Good night and joy be with you all.


Dita che lo afferrano. La furia gli si libera nelle vene, due ali immense si aprono sulla sua schiena, sbalzando via quelli che cercavano di trattenerlo. Sono ampie e forti, fatte di piume nere come la pece. Sente delle grida dietro le proprie spalle, ma non sono più urla di dolore. Sono urla di paura. Si volta a cercare gli occhi di Iphigenia. Li trova spalancati in un orrore confuso, fissi su di lui, come se non riconoscesse il mostro che ha davanti.



Si sveglia di soprassalto in un letto bagnato di sudore. Il petto squassato dalla consapevolezza di aver fatto un altro incubo. Sono frequenti, nelle ultime settimane. 
Una mano sale al viso. Ci respira dentro. Si massaggia gli occhi stanchi. Quando li riapre, intorno a sè riconosce il buio sintetico della propria stanza nell'Hive. Non è a casa. Non ci sono le luci colorate di China Town che filtrano dalle finestre. Non ci sono finestre. Accende la luce al neon, che ronza, instabile sulle prime. Si siede sulla branda, allungando la mano verso lo sportello accanto al letto. Dentro, c'è una bottiglietta di whisky economico. Piccola, di quelle che gli alcolisti nascondono nelle tasche. Prende un paio di sorsi dal collo, tossicchiando, rigirandosela tra le mani con un sollievo solo superficiale. 
Per un paio di minuti, non fa altro che fissare nel vuoto, pensieroso. Poi recupera il cellulare. Digita un numero che non chiama da troppo tempo. Suona per molto, a vuoto, prima che una voce impastata risponda dall'altro lato.

"Ross?"
"Ciao, papà."
Si sente il momento in cui il padre adottivo si mette a sedere, nella notte, nel suo letto. E' vecchio. La sua voce suona più vecchia di come la ricordasse dall'ultima chiamata.
"Stai bene?"
"Volevo sapere come.. andavano le cose a casa."
"E' vero quello che dicono alla televisione?"
Non sa come mai suo padre lo chieda a lui con quel tono.
"Si. E' vero."
C'è un lungo silenzio dall'altra parte.
"Noi siamo vecchi, in fondo. Non devi preoccuparti per noi."
"Credi che io sia stato un bravo figlio, per quel poco che lo sono stato?"
Sente il vecchio schiacciare un sorriso dall'altra parte del telefono.
"Ti sei sempre cacciato in un sacco di guai. Ma te ne sei anche sempre tirato fuori da solo. Tua madre diceva sempre che se avessimo adottato un cane randagio non sarebbe stato poi diverso."
Ma nonostante quello che dice, lo dice con l'affetto di chi ha appena fatto un complimento dal valore inestimabile.
"Immagino che le cose non siano cambiate poi molto."
"Dicono che i lupi siano bestie con un senso della famiglia più forte del nostro, Ross."
"Hai visto la partita?"
"No. Sto diventando troppo vecchio per tutti quei rumori che ci mettono intorno adesso. Le fanfare, i rapper, i fuochi d'artificio. Ai miei tempi al massimo c'erano le ragazzette con i pom pom. Erano tempi più facili. Sono felice di non avere la tua età."

Quando mette giù il telefono, è più solo di prima.

Monday, December 19, 2016

Of Ruin and Rapture

Ascend.

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Apre gli occhi, dopo essere caduto nel sonno. Una vertigine lo ha trascinato in basso, o in alto. Difficile da dire, nella geografia imprecisa del suo subconscio. 
Su questo piano, è finalmente riuscito ad addormentarsi nel suo letto, dopo ore di veglia in cui lo hanno tormentato i pensieri. Ma quando la coscienza lo ha abbandonato di qui, un’altra coscienza lo ha afferrato con forza, catapultandolo in un mondo che non ha mai visto prima.

Intorno a lui, è il buio. Un buio fitto, ma enorme. Si estende vuoto e silenzioso a perdita d’occhio, come l’universo. Ma sotto ai suoi piedi, non c’è il nulla. C’è un pavimento di pietra. E intorno a lui, un immenso colonnato che si estende regolare, in filari identici tra loro e illuminati da milioni di lanterne sospese nel nulla. Solleva gli occhi, colmo di meraviglia. I capitelli delle colonne sono ornati da dettagli che non riesce a ricondurre a nessuna cultura che ricordi di aver mai visto. Non sono capitelli greci. Non sono capitelli romanici, nè gotici. Sopra di essi, una stellata distante, come la via lattea. Le lanterne bruciano di fiamme perpetue, molli, dai colori caldi. Inizia ad avanzare, dritto davanti a sè, lungo la navata in cui si trova. Identica a centinaia di altre navate parallele ad essa, perpendicolari ad essa. E’ un luogo privo di Nord, privo di Sud. Privo di Est od Ovest, un labirinto in cui ogni cosa sembra infinita, immobile ed identica. I suoi passi rimbombano nel vuoto, mentre avanza con cautela. Cammina per un tempo indefinito, fino al momento in cui, dritto di fronte a se, scorge qualcosa. Una piramide? Una scala? Una struttura in pietra. Avanza ancora. E’ un trono. Un imponente, massiccio trono in pietra, circondato da lanterne e da due guardie silenziose. Immobili. Hanno il petto nudo, e teste di uccelli placcate in metallo e oro. Difficile capire se siano caschi, o se siano davvero le loro teste. Gli uccelli hanno occhi neri, vuoti. Non si muovono quando lui si avvicina, ma reggono due lance, le punte rivolte verso l’alto. In attesa. Pronti. Le teste non si piegano, nemmeno quando lui si ferma davanti a loro. Sul trono, seduto e con il volto vuoto, di ombra, rivolto verso di lui, siede Samael. Le sue vesti sono diverse da quelle che gli ha visto sulla terra. Ha due imponenti ali luminose, fatte di piume e intarsiate d’oro. Si muovono dolcemente, seguendo il suo respiro. Indossa una tunica di tessuto spesso, nero e dorato, con ampi ornamenti in filo di luce che si aprono sul petto, sulla cintura. Sulla testa, una corona di spine, anch’essa d’oro, che non sembra provocargli alcun dolore. Posata accanto al trono, una spada di una fattura che non ha mai visto. Lunga, pesante ma bellissima. Il volto di Samael, tuttavia è come sempre avvolto nell’ombra, coperto da un cappuccio che tintinna, impreziosito da gioielli d’osso, ad ogni suo movimento. Samael si alza in piedi, iniziando a scendere le scale. Lui impiega alcuni lunghi momenti a ritrovare la voce.

“Che posto è questo.”
“Questo? Siamo ovunque e da nessuna parte. Questo è l’unico posto in cui possiamo coesistere completamente.”

Ross impiega un attimo a formulare un’ipotesi.
“..Siamo nei miei sogni?”
“Anche. Siamo nella tua coscienza più profonda. E allo stesso tempo, siamo nel mio regno. Questo piano non è accessibile agli umani. Non con il corpo. Ma per te, lo è, con la mente. Se le condizioni lo permettono.”
“Sto dormendo..”
“Il tuo corpo, si. La tua mente, non è mai stata cosí sveglia.”

Samael taglia le sue parole con decisione, raggiungendolo. Con le ali completamente formate e la sua altezza, è una figura imponente. Le guardie non muovono la testa nemmeno al suo passaggio. Lui le fissa.
“Chi sono, loro?”
“Guardiani.”
“Sono vivi?”
“In un certo senso.”
“Con te non si riesce mai ad ottenere una risposta diretta.”

Samael ride. Una risata bassa, pacata. 
“Connor ti ha detto una cosa simile, ieri sera.”

Quelle parole lo raggelano per un paio di istanti.
“Hai sentito la nostra conversazione.”
Un lungo silenzio segue a quelle parole. L’angelo si piega verso di lui, come una montagna che si inchina. Scandisce parole con la voce profonda e seria.
“Io sono sempre con te. Sono sempre stato con te. In ogni istante della tua vita. Conosco ogni cosa. Conosco i tuoi pensieri, forse meglio di quanto li conosca tu. Conosco ogni momento della tua esistenza, anche quelli di cui non hai memoria.”

A quello, non riesce a rispondere. Ma non sembra che Samael si aspetti nulla di diverso, perchè si raddrizza, ricominciando a muoversi attraverso la stessa navata da cui è arrivato lui.
“Vieni con me. E’ arrivato il momento che ti mostro qualcosa.”
Lui esita. Lancia un’occhiata verso i guardiani. Solo in quell’istante, uno dei due piega appena la testa, fissandolo con due occhi vuoti, fatti d’ombra. Lo costringe a deglutire, gli smuove le gambe, perchè si affretta appena dietro all’angelo, il quale si assicura che lo stia seguendo, prima di svoltare a destra, in una navata che a lui sembra assolutamente identica alla precedente.
“Dove stiamo andando?”
“Lo vedrai. Speravo che non ce ne fosse bisogno, che avremmo potuto fare le cose in modo più dolce e graduale. Ma tu continui a combattermi. Me lo sarei dovuto aspettare. In fondo ti ho scelto anche per quello. Sei un combattente. Sei resistente. Non ti arrendi. Ma in questo caso, non posso permettere che tu perda la prospettiva. E’ una guerra che non puoi vincere, e ti stai solo logorando. Quindi, devo usare un pò di forza. Devo darti una spinta.”

Samael parla ora con una frustrazione un pò più marcata. O forse è solo severità. Come un padre che inizia a perdere la pazienza. Ma qualcosa, nelle parole o nel tono di voce dello spirito, lo costringono ad inchiodare i propri passi. Si blocca, un’angoscia crescente che si spande nel petto. Il respiro accelera, mentre lo fissa. Gli intima qualcosa con la rabbia delle bestie braccate.
“Fammi uscire di qui. Voglio svegliarmi. Non hai il diritto.”
Il tempo si ferma, mentre Samael si volta, lentamente, a fissarlo. Quando parla di nuovo, lo fa con la voce incrinata da una rabbia che si accende piano, lenta ma inesorabile come le braci di falò prima che generino un inferno di fuoco.
“Uscire. Per andare dove? Da Connor? Dal piccolo Austin? Loro non sono come te. Tu non sei come loro. Tu sei fatto di una sostanza che non potrebbero comprendere. Austin ti amerebbe anche se fossi un mostro, lo sai. Tu lo sai, e la sua innocenza lenisce i morsi della tua coscienza, ti fa credere che ti possa salvare. Ti fa credere in una redenzione che non ti è destinata. La redenzione è per chi se la può permettere. Connor, il buon Connor…”
Samael inspira. La sua voce si inasprisce, nel pronunciare il nome del First. Poi si abbassa verso di lui.
“Connor ti vuole per sè. Connor non vuole salvarti. Connor vuole contenerti. Possederti. Usarti. Da qualche parte dentro di sè sa che il suo affetto e la sua infatuazione non sono gratuiti. Connor ti vuole togliere a me per averti per sè. Nella sua arroganza pensa di poter comprendere cose che forse solo tu potrai arrivare a capire. Pensa di poterti mettere in una scatola, catalogarti e utilizzare il mio potere, il tuo potere, come se non fosse altro che un giochetto di prestigio. Coccolarti fino a che non ti impigrisci e ti crogioli nella sua gabbia. Io non lo permetterò mai. Non sei un banale mezzo di trasporto per me.”
Mano a mano che lo spirito parla, le sue parole gli bruciano cosí a fondo nella carne che il respiro si affanna, si fa fondo e carico di una furia animale, bruciante, che gli scalda gli occhi scuri, li incendia. Incendia la voce, che si alza in un ruggito con cui spinge il proprio viso maggiormente verso l’angelo in un’esplosione di coraggio disperato.
“No? Non lo sono? Allora smetti di trattarmi tu per primo come se lo fossi! Se non fosse per te sarei un semplice essere umano!! Se non fosse per te la mia vita sarebbe ancora la mia vita, tu mi hai potato via tutto!”

C’è un lungo silenzio, in cui non succede nulla. Le sue grida si spengono in un eco intorno a sè, che attraversa le colonne, le lanterne. Fa tremolare le fiamme, e poi muore. Lascia il posto al vuoto del suo respiro affannato e al fruscio di Samael mentre si raddrizza, senza distogliere gli occhi da lui.
“Guardati. Vorrei che potessi vedere i tuoi occhi in questo momento. La rabbia che c’è dentro. La rabbia che hai tenuto dentro tutta la vita. Vorrei che potessi vedere quello che vedo io, forse capiresti che non sei mai stato come tutti gli altri. Che io mi fossi manifestato a te o meno, non sei un umano, non lo sei mai stato. In te scorre un’energia diversa. Un’energia che scorre in poche  altre creature come te, e sono tutti esseri speciali. Hanno cambiato le sorti del mondo, continuano a farlo ogni giorno, che ne siano consapevoli o meno. Io non ti ho portato via nulla. Io ti sto dando ogni cosa. Io ti sto offrendo la chiave per comprendere chi sei, per comprendere il tuo potenziale. Ma tu continui a lavorare contro di me.“
Mentre Samael parla, una nuova vertigine afferra il suo corpo, mozzandogli il fiato in gola. Il pavimento svanisce sotto i suoi piedi. Le colonne svaniscono, ma le parole dell’angelo continuano ad arrivargli alle orecchie. Poi crolla. Precipita verso il basso, nel nulla. Precipita per un tempo che non saprebbe conteggiare, ma abbastanza da farlo gridare mentre sente lo stomaco risalirgli in gola. E cosí come cade, atterra. Senza che la violenza di quel crollo si trasmetta all’impatto con cui i suoi piedi toccano terra, che non è altro che un buffetto. Dopo il quale, è semplicemente in piedi. Confuso, ansimante. Si guarda intorno in cerca di punti di riferimento, ma sulle prime è accecato dalla luce del giorno cosí diversa dal buio dell’universo. Quando i suoi occhi si abituano, comprende di essere in un luogo diverso. Di nuovo, un luogo che non riconosce, ma questa volta dall’aspetto molto più famigliare di quello precedente. E’ una foresta. Non troppo fitta. Un boschetto stretto nella morsa dell’inverno. Il ghiaccio, la brina e la nebbia avvolgono in una morsa i cespugli spogli, gli alberi intirizziti. Il cielo è nuvolo. Forse è l’alba, o il momento in cui giorno volge verso la sera. L’erba scricchiola secca e congelata sotto i piedi. Samael sembra svanito. Incerto sul da farsi, inizia ad avanzare, scosso da un’angoscia crescente, gli occhi che saettano intorno alla ricerca dell’angelo senza trovarlo. La nebbia sembra ammantare i suoni. Non riesce a sentire il canto di uccelli, o il fruscio di topi tra i cespugli. Ogni cosa sembra immobile. Fino a che, nitido, il gracchiare di corvi viene da sinistra. Lui si ferma. Esita. Poi inizia a muoversi in quella direzione, fosse anche perchè è l’unica da cui provenga un segno di vita. Si muove con cautela, tra i rovi. Ma non è sufficiente ad impedire che il piede gli si incastri in qualcosa di solido. Forse una radice. Inciampa, perdendo l’equilibrio e mettendo le mani avanti un istante prima di atterrare al suolo. Ma invece che sul terreno ghiacciato, atterra su qualcosa di diverso. Un corpo. Il volto pallido di un uomo, dagli occhi sbarrati e un rivolo di sangue rappreso attraverso il volto, si trova a pochi istanti dal suo. Il cuore gli rimbalza in gola cosí forte che ansima, scattando in piedi e ora assottigliando gli occhi. L’uomo è riverso a terra, l’erba macchiata di sangue. Indossa abiti dall’aspetto antico, forse medievale. Indossa un’armatura, un elmo. Accanto a lui giace una spada, spezzata appena sopra l’elsa. Non fa in tempo a metabolizzare la miriade di domande che quella vista gli provoca, che scorge, poco lontano, un altro corpo. Poi un altro ancora. Un altro ancora. Fa un passo indietro, mentre realizza di avere di fronte una distesa di morte. Un campo di battaglia, forse. Decine di uomini armati con spade, lance, elmi, riversi uno sull’altro, il loro sangue che gocciola ancora dalle foglie congelate. Porta la mano alla bocca, combattendo l’orrore. Inizia a camminare tra loro. I crani squassati, aperti. Gli elmi riversi. Teste mozzate. Membra sviscerate. Fa fatica a respirare, mentre continua a camminare. Si ferma accanto ad un’asta di bandiera, conficcata a terra e spezzata. La bandiera è riversa come i corpi, macchiata di sangue e fango. Una bandiera che non riconosce. Di colpo, una voce alle sue spalle lo fa trasalire, gli scuote i nervi e lo riempie di orrore.
“Continua a camminare.”
Samael. Si volta. Ne sente la voce, ma il corpo non c’è. E’ apparentemente solo, in quella distruzione.
“Dove siamo?”
Riesce a mormorare.
“In una memoria. Sono passate centinaia di anni.”
“Cos’è successo a questi uomini? Qualcosa li ha fatti a pezzi.”
“Ho detto continua a camminare.”

Che lo voglia o meno, non saprebbe come tornare indietro. Non gli resta che ubbidire. Il rumore di un acquitrino o di un rigagnolo emerge dalla nebbia di fronte a lui. Cerca di accumunare la vista attraverso le fronde. Sussulta, nello scorgere una sagoma sulla riva di quello che sembra un piccolo torrente. Istintivamente, si blocca. Si trova a diversi metri, ma è vicino abbastanza da poter osservare la figura ricurva di un uomo. Un guerriero, le spalle avvolte da una fitta pelliccia nera per proteggerlo dal rigido inverno. Lunghi capelli arruffati, cordosi, incrostati. Un’armatura di metallo, non simile da quelle dei soldati massacrati, seppur abbia l’aspetto più dozzinale. Accanto a lui invece c’è una spada piantata nel fango, una spada dalle finiture ben più elaborate e raffinate di quanto sembri il resto dell’armamentario dell’uomo. Il torrente, placido, è torbido. L’acqua è rossa. E’ costretto a fare mezzo passo in avanti per capire che la ragione è l’uomo, che si sta lavando sommariamente nel rigagnolo. Si lava le mani, il collo, il volto, coperti di sangue. Anche la spada, gocciola di sangue. La consapevolezza che l’uomo, se di un uomo si tratta, è la causa del massacro che ha attraversato poco prima lo colpisce come un martello sull’incudine, mandandogli una scossa di terrore nella schiena che si acuisce e affonda fino nelle ossa quando il guerriero sembra alzarsi e voltarsi verso di lui, rivelando il proprio volto. La folta barba e i capelli selvaggi rendono difficile scandire i lineamenti del suo viso, che non sembra tuttavia molto vecchio. Ma i suoi occhi lo incastrano. Lo trafiggono, scuri e densi. In un unico terribile istante, è consapevole di due cose: l’uomo può vederlo, e lui ha già visto quegli occhi da qualche parte.
Ha un singulto di panico. Indietreggia, arranca allena fango senza riuscire a voltarsi, a interrompere il contatto visivo con l’uomo. Ma a bloccargli la fuga, di nuovo quella voce.
“Lo riconosci?”
Samael. Questa volta si trova alle sue spalle. Sente il fruscio delle sue ali. Il guerriero continua a fissarlo. Allunga la mano verso la spada, estraendola dal fango e iniziando a muoversi verso di lui. 
“Fammi uscire.”
“Gli uomini che hai visto avevano razziato un villaggio poco distante, durante la carestia. Hanno ucciso, stuprato, bruciato. Avresti dovuto sentire le grida che si sollevavano tra le fiamme, di quella povera gente.”
“Li ha massacrati!”
Gli occhi dell’uomo lo soffocano, mentre continua ad avvicinarsi brandendo la spada. 
“Lo riconosci?”
“Fammi uscire, ho detto. Ucciderà anche me!”
“No. Non lo farà. E tu sai la ragione.”
Nell’angoscia orrenda con cui cerca di indietreggiare, scivola su un cumulo di fango e foglie secche. Pochi istanti dopo, l’uomo lo sovrasta. Solleva la spada sopra la propria testa. Ross urla, coprendosi in attesa del fendente. Che non arriva. Il guerriero ha abbassato la spada, Gliela sta porgendo. 
“Prendila.”
Il suo respiro è cosí affannato che gli sembra di essersi congelato i polmoni. Confuso, allunga la mano lentamente, fino a raggiungere l’elsa. La impugna, piano. 
E poi di nuovo, cade.
Viene risucchiato verso il basso, di nuovo in un crollo improvviso verso il vuoto che gli mozza il respiro. Quando atterra, questa volta atterra con forza, i piedi si abbattono sul terreno mandando uno shock al resto del corpo che lo costringe a flettersi sulle ginocchia, perdendo l’equilibrio per qualche istante. Si risolleva, ormai scosso da onde incontrollate di nervi che si stiracchiano sotto la violenza dello sconvolgimento e della confusione. Intorno a lui, ogni cosa è buio. Un buio diverso da quello che ha sperimentato nel primo luogo che ha visto. Questo è un buio assoluto. Soffocante. Anche il suolo è fatto di buio, nonostante possa camminarci come si cammina su una superficie perfettamente liscia. Non si scorge alcuna differenza tra sotto e sopra. Non esiste orizzonte. Ci mette un pò a rendersi conto che qualcosa gli pesa in una mano. Abbassa gli occhi e scopre di stare ancora stringendo la spada. E’ pesante. La punta trascina per terra, fino al momento in cui la solleva per osservarla meglio. 
“Si chiama Nadir.”
Si volta di scatto. Samael avanza nel buio, fluttuando come se non avesse bisogno di camminare, gli bastasse scivolare nella sostanza.
“..Come l’orizzonte?”
“Il punto di congiunzione tra il vostro mondo e l’emisfero celeste invisibile.”
Riporta gli occhi sulla spada, osservandone i dettagli. Ci sono dei simboli intarsiati nella lama di cui non riesce a riconoscere l’alfabeto.
“Che lingua è?”
“Troppo antica perchè gli umani la ricordino. Nadir è una spada speciale. Si lascia sollevare solo da chi è prescelto per farlo.”
Di colpo, i suoi nervi logorati sembrano abbandonarlo. Ha uno scatto, un brivido di frustrazione. 
“Samael, vai dritto al punto. Mi hai fatto fare questa gita degli orrori solo per farmi sollevare una spada?”
“No. Voglio che la usi.”

Ross esita, preso in contropiede. Sogghigna, persino. Si guarda intorno nell’oscurità, per tornare con gli occhi sull’angelo.
“E contro cosa, contro di te?”
“No. Ho un regalo per te.”

La fronte gli si contrae, interrogativo, sospeso. Samael allunga un braccio, indica qualcosa oltre di lui. Lui si volta, confuso, verso un punto in cui prima c’era solo buio. Ora, una sagoma avanza. E ogni passo della figura verso di loro, il suo cuore affonda. Gli occhi gli si spalancano piano. Le labbra che si schiudono in un orrore a cui non riesce a dare voce. Un uomo sulla cinquantina, con capelli grigi e lunghi fino alle spalle gli sta di fronte. Una giacca di pelle, una maglietta bianca di cotone logoro e un paio di jeans slavati, tenuti su da una cinghia di cuoio con la fibbia in argento. Non gli servirebbero più di due secondo per riconoscerlo. Una cascata di ricordi che credeva di aver seppellito, tornano ad investirlo. L’uomo lo fissa negli occhi, per poi inginocchiarsi a terra, docile, ma senza smettere di guardarlo.
“Te lo ricordi, vero? Non lo vedi da molti anni, ma so che te lo ricordi. Avevi solo nove, dieci anni. Un bambino indifeso. Il bambino di cui avrebbe dovuto occuparsi. Lo pagavano per farlo, ma sapevi che non gli sarebbe importato. Ci eri abituato. Credevi ti avrebbe ignorato come facevano tutti. Ma lui no. Lui era diverso. Lui non ti ignorava.”
Ross sente le mani tremare, ogni muscolo del corpo viene attraversato da brividi violenti, gli occhi che rimangono fissi sull’uomo.
“La fibbia ti scorticava la pelle cosí a fondo che il tessuto dei vestiti era una tortura. Dovevi rannicchiarti su un fianco per trovare sollievo la notte, negli unici posti in cui non t’avesse frustato. T’avrebbe fatto diventare un uomo, diceva.”
“Stai zitto.”
Lo sibila con una violenza che lo raggela, la voce rotta dalla sensazione soffocante di qualcosa che inizia a riempirgli il petto. 
“Anche altre cose ti avrebbero fatto diventare un uomo. Come quando le sue mani ti stringevano il collo fino a che stavi soffocando, perchè amava vederti mentre ti dibattevi.”
“Stai zitto!! Taci!!”
Ora sta gridando. Con tutto il fiato che ha in gola.
“Ci sono molte cose che hai preferito dimenticare, hai preferito seppellire nel fondo di una scatola in cui non guardi mai. Quegli anni si sono consumati e tu ne hai fatto un unico indistinto territorio di nessuno, in cui non entrare mai. L’hai fatto cosí bene che hai scordato anche me. O almeno credi. Ma io so che non è cosí. Ti sei scordato di quella notte, in cui sono stato da te e ti ho detto cosa fare. Quella notte, in cui sei riuscito a difenderti, e lui ha capito che il suo giocattolo preferito era più speciale di quanto credesse. Ti sei dimenticato di quello che ti ha detto.”
Di colpo, l’uomo inginocchiato di fronte a lui parla. La sua voce emerge dal fondo della sua memoria come se fosse marchiata a fuoco da qualche parte nella sua mente.
“You little fucking monster. Avrei dovuto lasciarti sull’autostrada come si fa con le bestie.”
Non riesce a respirare. Prende aria e butta aria dal naso come un bufalo, avvolto da una sofferenza acuta, violenta. Una sofferenza che lentamente, si incendia. Diventa qualcosa di diverso, di molto più crudo, puro, terribile.
“Oh si. Finalmente. Lasciala uscire. E’ il momento, abbracciala.”
Rabbia. Una rabbia accecante che gli stringe le nocche contro il manico della spada, mentre il suo aguzzino sembra fissarlo serafico, imperturbabile.
“E’ il momento che regoli i conti. E’ il momento che scenda la giustizia anche sul suo capo, Ross. E’ il momento che paghi per quello che ti ha fatto. Cosí come hai salvato le anime di molta gente, è il momento che mandi la sua a farsi dannare.”
Lui scuote la testa, o tenta di farlo, nonostante sia talmente fisso sull’uomo da non riuscire a sentire nient’altro che una pulsione tremenda e meravigliosa, liberatoria.
“Avanti.”
Lo incita ancora Samael. Lui fa un passo in avanti, trascinandosi dietro la spada. L’uomo gli sorride debolmente. Respira cosí forte che la testa gli gira, mentre lentamente porta anche l’altra mano all’elsa di Nadir. 
“Come ruin and rapture.”
Come se fosse una formula magica, o una profezia, l’uomo scandisce quelle parole fissandolo. Lui sente il sangue ribollire nelle vene. Gli occhi del guerriero nella foresta gli riempiono la mente. Solleva la spada, le nocche bianche sotto lo sforzo di violenza con cui la abbatte sul collo dell’uomo, troncandogli la testa di netto, abbandonandosi ad un urlo che gli scuote le membra. Uno schizzo di sangue gli atterra sul viso, sui vestiti. La testa rotola ai suoi piedi, la bocca aperta in una smorfia di dolore che non ha avuto il tempo di spegnersi ed è rimasta impressa su di lui per l’eternità. Ha gli occhi spalancati che fissano il vuoto. La scossa di adrenalina che lo investe viene seguita quasi immediatamente da una di orrore. Lascia cadere la spada a terra. Il metallo rimbomba nel vuoto del luogo non luogo in cui si trovano. Ansima. Si affanna. Annaspa come un pesce fuori dall’acqua troppo a lungo che sta per morire, indietreggiando, lo sguardo che non riesce ad abbandonare la testa che ha mozzato.
Si volta, affamato, trova Samael a fissarlo. Accanto a lui, il guerriero della foresta. Sente le ginocchia farsi molli, mentre il demone avanza. Il guerriero, rimane a distanza. Ma di colpo, sembra realizzare come mai quegli occhi gli sembrino famigliari. Li ha visti migliaia di volte, riflessi nello specchio.
Atterra sulle ginocchia, forse perde i sensi. La certezza di aver allungato una mano per sorreggersi sulla tunica dello spirito, e di essersi trovato a fluttuare con il proprio urlo nelle orecchie.


Lo stesso urlo che lo ha svegliato di soprassalto, nel suo letto, madido di sudore.

Sunday, December 18, 2016

Of Salt and Cinnamon

Si chiude la porta dietro alle spalle, assicurandosi di non fare rumore. La serratura scatta con un ticchettio lievissimo, dopo il quale espira, appoggiandosi contro l'uscio pesante solo la stanchezza. L'appartamento è piccolo e buio. Il ticchettio sul pavimento tradisce il fatto che Stroke è libero, fuori dalla gabbia. Vede il coniglio mettere il musetto fuori dalla camera da letto e controllare chi sia. Nei giorni passati l'animale ha imparato a stare lontano dal medico, concentrando tutto il suo amore su Austin e dedicando a lui solo una sfiducia guardinga, la stessa con cui torna zompettando verso il loro letto. Dormono ancora sul materasso posato a terra. Lui cammina fino alla porta della camera, affacciandosi nell'oscurità e scorgendo il profilo del corpo di Austin sotto le coperte. Il respiro lento e ritmico di chi dorme profondamente. Stroke si arrampica ad accovacciarsi vicino a lui. L'immagine gli strappa l'ombra di un sorriso lontano, distante. Che si spegne un attimo dopo, disperso nel filo dei suoi pensieri. Senza fare rumore, si scosta, tornando in cucina e accendendo la luce. Ha gli abiti inzuppati di sangue. La camicia strappata da un pezzo di legno che gli resta conficcato nella carne del fianco. In silenzio, si lava le mani nel lavandino della cucina, prima di recuperare ago e filo, garze e disinfettanti, un paio di pinze.
Il primo pezzo di legno che estrae causa un fiotto di sangue sul tavolo della cucina, gli strappa un gemito sordo che ingoia a stento, per poi bloccarsi e sollevare un'occhiata verso la porta della camera da letto. Nulla. Austin dorme ancora. Proseguiamo. 
Mentre cerca di ricucirsi, ingoiando galloni di saliva secca e imprecazioni, la sua mente viaggia, sulle ali violente della concentrazione.
Un fiotto di rabbia gli sale in gola al ricordo delle manette di Parker. "Ti porto a registrarti, con le buone o con le cattive. A te la scelta" ha detto al ragazzino.
Per un attimo, contempla cosa sarebbe successo se fosse stato lui a sentirselo dire. L'idea lo raggela. Le conseguenze, gli buttano in corpo una furia brutale e un'angoscia profonda. La consapevolezza che avrebbe scelto la seconda opzione si fa strada nella sua mente come un serpente, con un orgoglio che lo lascia atterrito. 

La cucina è piena di sangue. Pulisce con cura, dopo che ha finito un lavoro pietoso e impreciso, imperfetto, che non dura più di dodici ore.


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Andrà tutto bene.
Andrà tutto bene, Sweetheart.

Austin va a fuoco e il fine settimana ci ha lasciati in ginocchio. E' andato a ripescarlo in un vicolo, terrorizzato e ripiegato su se stesso. 
La vita cambia velocemente, di questi tempi. Suo padre telefona per sapere come sta andando il trasferimento. Quando accetta la chiamata, sta ancora pulendo carbonella, sta fissando il ragazzino che vive in casa sua fissare nel vuoto dopo aver dato fuoco ai propri vestiti. 
"Aspetta, vado nell'altra stanza."
"Allora? Come vanno le cose? Hai visto la partita ieri?"
La partita. Si è dimenticato della partita. 
"...Ahm, no. Ero di turno."
Mente. 
"Oh. Ah, hai trovato un nuovo lavoro? In che ospedale? Aspetta, lo dico a tua madre. Angela! Ross ha trovato lavoro! Si, si, sta già facendo i doppi turni, scommetto. Come sempre. Non ti stai stancando troppo, no? Comunque, non voglio rovinarti la sorpresa allora, ma voglio solo dirti: ..Kenneth, nel secondo tempo. Un touch down che passerà alla storia."
La voce di suo padre gli arriva per la prima volta come una doccia fredda, mentre fissa l'appartamentino di China Town in cui vivono, il coniglio che corre in giro e prova a scuotere Austin.
Stroke si lascia scappare un paio di cacchette nere vicino al divano. Non dice nulla, ma di colpo realizza di aver perso il filo di quello che sta dicendo suo padre.
"..Quindi non lo so, lo sai come sono fatti Barbara e Roger. Non capisco mai di che cosa stanno parlando, quando iniziano con quelle scemenze sui cani. Ogni week end con questi cazzo di cani. Tu lo sai cosa sono i Chow Chow?"
"..No."
"Visto? Nemmeno io. Insomma, in che ospedale lavori?"

Austin in salotto apre le mani, due fiamme le avvolgono.
"Papà devo andare adesso. In casa mia c'è la guerra."
"Che guerra?"
"Il frigo fa dei rumori strani."
"Va bene, ci sentiamo nei prossimi giorni. Stammi bene, ok? E buon Natale."

La ferita gli si è riaperta, il sangue macchia i vestiti come un abbraccio caldo.

Wednesday, November 30, 2016

Dal languore alle fiamme

Ross Kelly non è un uomo che si spaventa facilmente. In 34 anni di vita, non ricorda molti momenti in cui abbia provato del vero terrore. Angoscia, molta. Quella si. Dolore. Rabbia. Ma paura, quella selvatica, immediata e profonda, l'ha provata raramente.
Se la ricorda, come una fiammella incerta, annidata da qualche parte in un ricordo che continua a tormentarlo e a sfuggirgli. Un momento che ha sognato ogni notte, nelle ultime notti.
Impalpabile ma inevitabile. Il rumore delle ruote che stridono nel buio, la strada illuminata dai fari. Una luce accecante, forse quella degli abbaglianti che incendiano un cartello stradale. E poi lamiere. La macchina si ribalta su stessa. Una, due, tre volte. Atterra in un clangore orrendo come una carcassa di ferro, che muore senza contorcersi. I vetri che esplodono e il metallo dilaniato. Il fuoco. Un incidente di cui nessuno gli ha mai raccontato molto, che lui ha sempre considerato la ragione per cui gli Stati Uniti d'America si sono presi carico di un neonato irlandese e l'hanno rovinato progressivamente a spese dei contribuenti. Ma come si possibile che quelle immagini si siano marchiate a fuoco nel cervello di un bambino di un anno al massimo.. Sono reali o sono solo un incubo? Perchè se fossero reali c'è da chiedersi come sia possibile che un neonato sia sopravvissuto ad uno schianto cosí violento. Eppure, il volto di sua madre non lo ricorda. Nè di suo padre. Non un dito, non un polso. Non un tessuto, un vestito. Solo la luce accecante. 


Si sveglia di colpo. Un balzo del cuore, il busto che si solleva di scatto come se avesse una molla nella schiena. E' madido di sudore, come molte altre notti. A tentoni, allunga una mano accanto a sè, a cercare Austin dal sonno pesante. Non lo trova. Il letto è vuoto, le dita affondano in lenzuola intonse. Forse il ragazzo è fuori a ballare. Tanto meglio. Eppure, non ci mette molto a capire che qualcosa di diverso c'è. Il cuore. Il suo cuore, nel petto, è pesante come pietra. Espanso, gonfio, ha la sensazione che gli riempia tutto lo sterno. Ansima, fatica a respirare. Una mano si aggrappa alla pelle, in cerca del proprio battito. Si sforza di mantenere la calma, ma la sente scivolare su per la spina dorsale, in gola, dopo molti anni. Paura.
Cristallina. Inconsapevole. 
Le dita si affannano verso una lampada, verso il comodino. Cercano l'interruttore. Il bulbo si accende, spande una luce fioca nel piccolo appartamento. Non fosse cosí affannato, forse noterebbe che è più fioca del solito. 
I piedi scivolano a terra, ma il terreno gli manca sotto i piedi, le ginocchia cedono. Si trova a carponi, con un gemito.
E' allora che ha sentito la sua voce. Come una mano invisibile che lo tiene schiacciato a terra, prono, chino e atterrito come un cane da caccia. E' una voce profonda. Sembra venire dal basso, non dall'alto. Dalle viscere della terra.

"Calmati. Non ti agitare in questo modo. Ti stanchi."

Lentamente, solleva la testa, gli occhi. Ma di fronte a quello che vedono, la mente pratica del dottor Kelly viene abbattuta, prende lo scivolone più violento della sua intera vita. La sua razionalità viene abbattuta a bastonate dalla visione che si trova di fronte. 
In mezzo al loft, una creatura che non saprebbe descrivere facilmente sta in piedi, ad osservarlo. E' alto. Molto più alto di qualsiasi umano abbia mai visto. Forse perchè lo guarda dal basso, ancora prono sulle ginocchia, gli sembra cosí alto da sfiorare il soffitto. Ma non può esserne certo, perchè nonostante la creatura sia luminosa di una luminescenza violenta, intensa, sembra di fatto assorbire tutta la luce attorno a sè, lasciando il resto dello spazio avvolto in un'oscurità naturale. Forse succhia la luce dal mondo e la ributta fuori attraverso sè stesso. La creatura ha sembianze umane, seppur sia difficile dirlo con certezza. Il corpo è snello ed elegante, allungato. Avvolto in quelli che sembrano tessuti candidi, e gioielli di un materiale inconsistente. Sul capo ha calato un mantello, un cappuccio. Un tessuto bianco, che non gli copre il volto ma che vi casta un'ombra che impedisce a Ross di scorgerne dei lineamenti precisi. Intravede la linea della mandibola. Ma la sensazione brulicante che gli sale con un brivido nella schiena, è che la creatura potrebbe essere bellissima e orrenda allo stesso tempo. 
E' atterrito. Non riesce ad emettere parola. La creatura si muove verso di lui, ma non fa alcun rumore. Non cammina, fluttua a pochi millimetri da terra.

"Ross. E' il momento che ti alzi."

Non ricorda di aver ubbidito a quel comando, eppure un momento dopo è in piedi, come per magia. Come se una parte della sua volontà fosse assoggettata. 

"Finalmente. Ho aspettato.. Ah. Ho perso il conto del tempo. Per me scorre molto diversamente. Ma l'ultima volta che siamo stati cosí vicini eri in fasce."

Il rumore delle ruote che stridono nel buio, la strada illuminata dai fari. Una luce accecante, forse quella degli abbaglianti che incendiano un cartello stradale.

La testa gli si fa pesante. Gira. Le vertigini gli ribaltano lo stomaco. Si piega su se stesso e vomita, cercando un appiglio. La creatura non sembra badarci.

"E' normale. Il tuo corpo deve abituarsi. Sarà doloroso, ma ti ho preparato più che ho potuto, negli anni. Mi addolora non avertelo potuto rivelare, ma doveva arrivare il momento giusto. Non un attimo prima, non un momento dopo."

"Chi.. Che cosa sei."

La creatura piega il capo. Nel pozzo di buio del suo sguardo, avvolto dall'oscurità e dalla luce allo stesso tempo, Ross riesce a scorgere uno scintillio, come una costellazione. L'aria si smuove, mentre una brezza fresca lo colpisce delicatamente sul volto, rinfrescandolo dal sudore e dalla stanchezza.

"La tua gente mi ha dato molti nomi, nel tempo."

"Dimmene uno."

"Samael."

Samael. La testa gli si indebolisce dietro il collo, Si sforza di tenerla dritta. Apre la bocca per chiedere qualcosa, ma non riesce a comprendere se faccia una domanda o no. Le labbra si smuovono secche, senza risultato. Eppure, Samael risponde come se lui avesse urlato.

"Voglio te."

Due parole che esplodono nel silenzio, prima che una fitta di dolore lancinante gli squassi lo stomaco. La mente. Forse gli squassa qualcosa ancora più a fondo. Il midollo. Un milione di aghi che gli flagellano la carne. Una fitta lancinante che gli strappa un grido strozzato. E poi il nulla. Ha serrato gli occhi. Quando li riapre, l'appartamento si estende ai suoi piedi come un regno di ombra. Un calore sconosciuto, mai sentito prima, gli scorre nelle vene. Una sensazione ineffabile, non diversa dalla leggerezza che si prova stando immersi sott'acqua, ma in cui ogni filamento del suo corpo sembra in grado di allungarsi e sfiorare qualsiasi angolo della stanza. qualsiasi angolo del mondo. Forse, è diventato la stanza stessa. In modo ancora più incomprensibile, la sua mente sembra diventare malleabile. Flessibile. Una sostanza sconosciuta che gli scivola nel cranio con un compendio di informazioni millenarie e incomprensibili, eppure chiare e limpide con la chiara limpidezza delle istruzioni elementari. La voce di Samael parla di nuovo, ma questa volta sembra arrivare dall'interno del suo cranio.

"Ci vorrà un pò di tempo perchè tu capisca fino in fondo. Ma devi fidarti di me. All'inizio farai fatica, poi ogni cosa avrà senso. Ogni cosa andrà al suo posto. Sei mio, lo sei sempre stato. Da molto prima che la tua mente baluginasse per la prima volta sulla Terra, pregustavo il momento in cui saremmo stati riuniti. Ed è finalmente arrivato."

Sono le ultime parole di cui riesce ad avere coscienza, prima che il buio lo avvolga. Un buio talmente profondo da fargli pensare per un istante senza tempo di essere morto. Poi, il buio diventa troppo fitto anche per la sua coscienza.


Quando riapre gli occhi, è mattino. La luce fredda del sole invernale filtra dalle finestre. E' sdraiato a terra, ai piedi del letto. La mano sale al viso, la passa pesante per cercare un contatto con la propria pelle, assicurarsi che esista ancora. Il corpo gli fa male. I muscoli sono indolenziti come dopo una lunga corsa. Come dopo una lotta. Si ribalta sul fianco, convinto, mano a mano, di aver fatto l'incubo più confuso che abbia mai fatto in vita sua ed essere caduto dal letto. Ma quando solleva gli occhi sull'appartamento.. La sua razionalità viene abbattuta a bastonate per la seconda volta. Lo spazio intorno a lui sembra aver attraversato una devastazione degna di un uragano. Piatti, bicchieri, elettrodomestici, lampade, ogni singolo oggetto giace frantumato in un mare di cocci, come se qualcuno in preda ad una furia disumana avesse sfogato ogni briciolo di energia in corpo sui mobili e sulle suppellettili della casa.
Una casa non sua. Si solleva in piedi, le labbra sfiancate dall'incomprensione. 
In piedi, in mezzo ad una distruzione assoluta e brutale.


His smile fair as spring, as towards him he draws you;
His tongue sharp and silvery as he implores you.
Your wishes he grants, as he swears to adore you,
Gold, silver, jewels - he lays riches before you.
Dues need be repaid and he will come for you
All to reclaim, no smile to console you.
He'll snare you in bonds, eyes glowing afire
To gore and torment you till the stars expire.