Monday, December 19, 2016

Of Ruin and Rapture

Ascend.

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Apre gli occhi, dopo essere caduto nel sonno. Una vertigine lo ha trascinato in basso, o in alto. Difficile da dire, nella geografia imprecisa del suo subconscio. 
Su questo piano, è finalmente riuscito ad addormentarsi nel suo letto, dopo ore di veglia in cui lo hanno tormentato i pensieri. Ma quando la coscienza lo ha abbandonato di qui, un’altra coscienza lo ha afferrato con forza, catapultandolo in un mondo che non ha mai visto prima.

Intorno a lui, è il buio. Un buio fitto, ma enorme. Si estende vuoto e silenzioso a perdita d’occhio, come l’universo. Ma sotto ai suoi piedi, non c’è il nulla. C’è un pavimento di pietra. E intorno a lui, un immenso colonnato che si estende regolare, in filari identici tra loro e illuminati da milioni di lanterne sospese nel nulla. Solleva gli occhi, colmo di meraviglia. I capitelli delle colonne sono ornati da dettagli che non riesce a ricondurre a nessuna cultura che ricordi di aver mai visto. Non sono capitelli greci. Non sono capitelli romanici, nè gotici. Sopra di essi, una stellata distante, come la via lattea. Le lanterne bruciano di fiamme perpetue, molli, dai colori caldi. Inizia ad avanzare, dritto davanti a sè, lungo la navata in cui si trova. Identica a centinaia di altre navate parallele ad essa, perpendicolari ad essa. E’ un luogo privo di Nord, privo di Sud. Privo di Est od Ovest, un labirinto in cui ogni cosa sembra infinita, immobile ed identica. I suoi passi rimbombano nel vuoto, mentre avanza con cautela. Cammina per un tempo indefinito, fino al momento in cui, dritto di fronte a se, scorge qualcosa. Una piramide? Una scala? Una struttura in pietra. Avanza ancora. E’ un trono. Un imponente, massiccio trono in pietra, circondato da lanterne e da due guardie silenziose. Immobili. Hanno il petto nudo, e teste di uccelli placcate in metallo e oro. Difficile capire se siano caschi, o se siano davvero le loro teste. Gli uccelli hanno occhi neri, vuoti. Non si muovono quando lui si avvicina, ma reggono due lance, le punte rivolte verso l’alto. In attesa. Pronti. Le teste non si piegano, nemmeno quando lui si ferma davanti a loro. Sul trono, seduto e con il volto vuoto, di ombra, rivolto verso di lui, siede Samael. Le sue vesti sono diverse da quelle che gli ha visto sulla terra. Ha due imponenti ali luminose, fatte di piume e intarsiate d’oro. Si muovono dolcemente, seguendo il suo respiro. Indossa una tunica di tessuto spesso, nero e dorato, con ampi ornamenti in filo di luce che si aprono sul petto, sulla cintura. Sulla testa, una corona di spine, anch’essa d’oro, che non sembra provocargli alcun dolore. Posata accanto al trono, una spada di una fattura che non ha mai visto. Lunga, pesante ma bellissima. Il volto di Samael, tuttavia è come sempre avvolto nell’ombra, coperto da un cappuccio che tintinna, impreziosito da gioielli d’osso, ad ogni suo movimento. Samael si alza in piedi, iniziando a scendere le scale. Lui impiega alcuni lunghi momenti a ritrovare la voce.

“Che posto è questo.”
“Questo? Siamo ovunque e da nessuna parte. Questo è l’unico posto in cui possiamo coesistere completamente.”

Ross impiega un attimo a formulare un’ipotesi.
“..Siamo nei miei sogni?”
“Anche. Siamo nella tua coscienza più profonda. E allo stesso tempo, siamo nel mio regno. Questo piano non è accessibile agli umani. Non con il corpo. Ma per te, lo è, con la mente. Se le condizioni lo permettono.”
“Sto dormendo..”
“Il tuo corpo, si. La tua mente, non è mai stata cosí sveglia.”

Samael taglia le sue parole con decisione, raggiungendolo. Con le ali completamente formate e la sua altezza, è una figura imponente. Le guardie non muovono la testa nemmeno al suo passaggio. Lui le fissa.
“Chi sono, loro?”
“Guardiani.”
“Sono vivi?”
“In un certo senso.”
“Con te non si riesce mai ad ottenere una risposta diretta.”

Samael ride. Una risata bassa, pacata. 
“Connor ti ha detto una cosa simile, ieri sera.”

Quelle parole lo raggelano per un paio di istanti.
“Hai sentito la nostra conversazione.”
Un lungo silenzio segue a quelle parole. L’angelo si piega verso di lui, come una montagna che si inchina. Scandisce parole con la voce profonda e seria.
“Io sono sempre con te. Sono sempre stato con te. In ogni istante della tua vita. Conosco ogni cosa. Conosco i tuoi pensieri, forse meglio di quanto li conosca tu. Conosco ogni momento della tua esistenza, anche quelli di cui non hai memoria.”

A quello, non riesce a rispondere. Ma non sembra che Samael si aspetti nulla di diverso, perchè si raddrizza, ricominciando a muoversi attraverso la stessa navata da cui è arrivato lui.
“Vieni con me. E’ arrivato il momento che ti mostro qualcosa.”
Lui esita. Lancia un’occhiata verso i guardiani. Solo in quell’istante, uno dei due piega appena la testa, fissandolo con due occhi vuoti, fatti d’ombra. Lo costringe a deglutire, gli smuove le gambe, perchè si affretta appena dietro all’angelo, il quale si assicura che lo stia seguendo, prima di svoltare a destra, in una navata che a lui sembra assolutamente identica alla precedente.
“Dove stiamo andando?”
“Lo vedrai. Speravo che non ce ne fosse bisogno, che avremmo potuto fare le cose in modo più dolce e graduale. Ma tu continui a combattermi. Me lo sarei dovuto aspettare. In fondo ti ho scelto anche per quello. Sei un combattente. Sei resistente. Non ti arrendi. Ma in questo caso, non posso permettere che tu perda la prospettiva. E’ una guerra che non puoi vincere, e ti stai solo logorando. Quindi, devo usare un pò di forza. Devo darti una spinta.”

Samael parla ora con una frustrazione un pò più marcata. O forse è solo severità. Come un padre che inizia a perdere la pazienza. Ma qualcosa, nelle parole o nel tono di voce dello spirito, lo costringono ad inchiodare i propri passi. Si blocca, un’angoscia crescente che si spande nel petto. Il respiro accelera, mentre lo fissa. Gli intima qualcosa con la rabbia delle bestie braccate.
“Fammi uscire di qui. Voglio svegliarmi. Non hai il diritto.”
Il tempo si ferma, mentre Samael si volta, lentamente, a fissarlo. Quando parla di nuovo, lo fa con la voce incrinata da una rabbia che si accende piano, lenta ma inesorabile come le braci di falò prima che generino un inferno di fuoco.
“Uscire. Per andare dove? Da Connor? Dal piccolo Austin? Loro non sono come te. Tu non sei come loro. Tu sei fatto di una sostanza che non potrebbero comprendere. Austin ti amerebbe anche se fossi un mostro, lo sai. Tu lo sai, e la sua innocenza lenisce i morsi della tua coscienza, ti fa credere che ti possa salvare. Ti fa credere in una redenzione che non ti è destinata. La redenzione è per chi se la può permettere. Connor, il buon Connor…”
Samael inspira. La sua voce si inasprisce, nel pronunciare il nome del First. Poi si abbassa verso di lui.
“Connor ti vuole per sè. Connor non vuole salvarti. Connor vuole contenerti. Possederti. Usarti. Da qualche parte dentro di sè sa che il suo affetto e la sua infatuazione non sono gratuiti. Connor ti vuole togliere a me per averti per sè. Nella sua arroganza pensa di poter comprendere cose che forse solo tu potrai arrivare a capire. Pensa di poterti mettere in una scatola, catalogarti e utilizzare il mio potere, il tuo potere, come se non fosse altro che un giochetto di prestigio. Coccolarti fino a che non ti impigrisci e ti crogioli nella sua gabbia. Io non lo permetterò mai. Non sei un banale mezzo di trasporto per me.”
Mano a mano che lo spirito parla, le sue parole gli bruciano cosí a fondo nella carne che il respiro si affanna, si fa fondo e carico di una furia animale, bruciante, che gli scalda gli occhi scuri, li incendia. Incendia la voce, che si alza in un ruggito con cui spinge il proprio viso maggiormente verso l’angelo in un’esplosione di coraggio disperato.
“No? Non lo sono? Allora smetti di trattarmi tu per primo come se lo fossi! Se non fosse per te sarei un semplice essere umano!! Se non fosse per te la mia vita sarebbe ancora la mia vita, tu mi hai potato via tutto!”

C’è un lungo silenzio, in cui non succede nulla. Le sue grida si spengono in un eco intorno a sè, che attraversa le colonne, le lanterne. Fa tremolare le fiamme, e poi muore. Lascia il posto al vuoto del suo respiro affannato e al fruscio di Samael mentre si raddrizza, senza distogliere gli occhi da lui.
“Guardati. Vorrei che potessi vedere i tuoi occhi in questo momento. La rabbia che c’è dentro. La rabbia che hai tenuto dentro tutta la vita. Vorrei che potessi vedere quello che vedo io, forse capiresti che non sei mai stato come tutti gli altri. Che io mi fossi manifestato a te o meno, non sei un umano, non lo sei mai stato. In te scorre un’energia diversa. Un’energia che scorre in poche  altre creature come te, e sono tutti esseri speciali. Hanno cambiato le sorti del mondo, continuano a farlo ogni giorno, che ne siano consapevoli o meno. Io non ti ho portato via nulla. Io ti sto dando ogni cosa. Io ti sto offrendo la chiave per comprendere chi sei, per comprendere il tuo potenziale. Ma tu continui a lavorare contro di me.“
Mentre Samael parla, una nuova vertigine afferra il suo corpo, mozzandogli il fiato in gola. Il pavimento svanisce sotto i suoi piedi. Le colonne svaniscono, ma le parole dell’angelo continuano ad arrivargli alle orecchie. Poi crolla. Precipita verso il basso, nel nulla. Precipita per un tempo che non saprebbe conteggiare, ma abbastanza da farlo gridare mentre sente lo stomaco risalirgli in gola. E cosí come cade, atterra. Senza che la violenza di quel crollo si trasmetta all’impatto con cui i suoi piedi toccano terra, che non è altro che un buffetto. Dopo il quale, è semplicemente in piedi. Confuso, ansimante. Si guarda intorno in cerca di punti di riferimento, ma sulle prime è accecato dalla luce del giorno cosí diversa dal buio dell’universo. Quando i suoi occhi si abituano, comprende di essere in un luogo diverso. Di nuovo, un luogo che non riconosce, ma questa volta dall’aspetto molto più famigliare di quello precedente. E’ una foresta. Non troppo fitta. Un boschetto stretto nella morsa dell’inverno. Il ghiaccio, la brina e la nebbia avvolgono in una morsa i cespugli spogli, gli alberi intirizziti. Il cielo è nuvolo. Forse è l’alba, o il momento in cui giorno volge verso la sera. L’erba scricchiola secca e congelata sotto i piedi. Samael sembra svanito. Incerto sul da farsi, inizia ad avanzare, scosso da un’angoscia crescente, gli occhi che saettano intorno alla ricerca dell’angelo senza trovarlo. La nebbia sembra ammantare i suoni. Non riesce a sentire il canto di uccelli, o il fruscio di topi tra i cespugli. Ogni cosa sembra immobile. Fino a che, nitido, il gracchiare di corvi viene da sinistra. Lui si ferma. Esita. Poi inizia a muoversi in quella direzione, fosse anche perchè è l’unica da cui provenga un segno di vita. Si muove con cautela, tra i rovi. Ma non è sufficiente ad impedire che il piede gli si incastri in qualcosa di solido. Forse una radice. Inciampa, perdendo l’equilibrio e mettendo le mani avanti un istante prima di atterrare al suolo. Ma invece che sul terreno ghiacciato, atterra su qualcosa di diverso. Un corpo. Il volto pallido di un uomo, dagli occhi sbarrati e un rivolo di sangue rappreso attraverso il volto, si trova a pochi istanti dal suo. Il cuore gli rimbalza in gola cosí forte che ansima, scattando in piedi e ora assottigliando gli occhi. L’uomo è riverso a terra, l’erba macchiata di sangue. Indossa abiti dall’aspetto antico, forse medievale. Indossa un’armatura, un elmo. Accanto a lui giace una spada, spezzata appena sopra l’elsa. Non fa in tempo a metabolizzare la miriade di domande che quella vista gli provoca, che scorge, poco lontano, un altro corpo. Poi un altro ancora. Un altro ancora. Fa un passo indietro, mentre realizza di avere di fronte una distesa di morte. Un campo di battaglia, forse. Decine di uomini armati con spade, lance, elmi, riversi uno sull’altro, il loro sangue che gocciola ancora dalle foglie congelate. Porta la mano alla bocca, combattendo l’orrore. Inizia a camminare tra loro. I crani squassati, aperti. Gli elmi riversi. Teste mozzate. Membra sviscerate. Fa fatica a respirare, mentre continua a camminare. Si ferma accanto ad un’asta di bandiera, conficcata a terra e spezzata. La bandiera è riversa come i corpi, macchiata di sangue e fango. Una bandiera che non riconosce. Di colpo, una voce alle sue spalle lo fa trasalire, gli scuote i nervi e lo riempie di orrore.
“Continua a camminare.”
Samael. Si volta. Ne sente la voce, ma il corpo non c’è. E’ apparentemente solo, in quella distruzione.
“Dove siamo?”
Riesce a mormorare.
“In una memoria. Sono passate centinaia di anni.”
“Cos’è successo a questi uomini? Qualcosa li ha fatti a pezzi.”
“Ho detto continua a camminare.”

Che lo voglia o meno, non saprebbe come tornare indietro. Non gli resta che ubbidire. Il rumore di un acquitrino o di un rigagnolo emerge dalla nebbia di fronte a lui. Cerca di accumunare la vista attraverso le fronde. Sussulta, nello scorgere una sagoma sulla riva di quello che sembra un piccolo torrente. Istintivamente, si blocca. Si trova a diversi metri, ma è vicino abbastanza da poter osservare la figura ricurva di un uomo. Un guerriero, le spalle avvolte da una fitta pelliccia nera per proteggerlo dal rigido inverno. Lunghi capelli arruffati, cordosi, incrostati. Un’armatura di metallo, non simile da quelle dei soldati massacrati, seppur abbia l’aspetto più dozzinale. Accanto a lui invece c’è una spada piantata nel fango, una spada dalle finiture ben più elaborate e raffinate di quanto sembri il resto dell’armamentario dell’uomo. Il torrente, placido, è torbido. L’acqua è rossa. E’ costretto a fare mezzo passo in avanti per capire che la ragione è l’uomo, che si sta lavando sommariamente nel rigagnolo. Si lava le mani, il collo, il volto, coperti di sangue. Anche la spada, gocciola di sangue. La consapevolezza che l’uomo, se di un uomo si tratta, è la causa del massacro che ha attraversato poco prima lo colpisce come un martello sull’incudine, mandandogli una scossa di terrore nella schiena che si acuisce e affonda fino nelle ossa quando il guerriero sembra alzarsi e voltarsi verso di lui, rivelando il proprio volto. La folta barba e i capelli selvaggi rendono difficile scandire i lineamenti del suo viso, che non sembra tuttavia molto vecchio. Ma i suoi occhi lo incastrano. Lo trafiggono, scuri e densi. In un unico terribile istante, è consapevole di due cose: l’uomo può vederlo, e lui ha già visto quegli occhi da qualche parte.
Ha un singulto di panico. Indietreggia, arranca allena fango senza riuscire a voltarsi, a interrompere il contatto visivo con l’uomo. Ma a bloccargli la fuga, di nuovo quella voce.
“Lo riconosci?”
Samael. Questa volta si trova alle sue spalle. Sente il fruscio delle sue ali. Il guerriero continua a fissarlo. Allunga la mano verso la spada, estraendola dal fango e iniziando a muoversi verso di lui. 
“Fammi uscire.”
“Gli uomini che hai visto avevano razziato un villaggio poco distante, durante la carestia. Hanno ucciso, stuprato, bruciato. Avresti dovuto sentire le grida che si sollevavano tra le fiamme, di quella povera gente.”
“Li ha massacrati!”
Gli occhi dell’uomo lo soffocano, mentre continua ad avvicinarsi brandendo la spada. 
“Lo riconosci?”
“Fammi uscire, ho detto. Ucciderà anche me!”
“No. Non lo farà. E tu sai la ragione.”
Nell’angoscia orrenda con cui cerca di indietreggiare, scivola su un cumulo di fango e foglie secche. Pochi istanti dopo, l’uomo lo sovrasta. Solleva la spada sopra la propria testa. Ross urla, coprendosi in attesa del fendente. Che non arriva. Il guerriero ha abbassato la spada, Gliela sta porgendo. 
“Prendila.”
Il suo respiro è cosí affannato che gli sembra di essersi congelato i polmoni. Confuso, allunga la mano lentamente, fino a raggiungere l’elsa. La impugna, piano. 
E poi di nuovo, cade.
Viene risucchiato verso il basso, di nuovo in un crollo improvviso verso il vuoto che gli mozza il respiro. Quando atterra, questa volta atterra con forza, i piedi si abbattono sul terreno mandando uno shock al resto del corpo che lo costringe a flettersi sulle ginocchia, perdendo l’equilibrio per qualche istante. Si risolleva, ormai scosso da onde incontrollate di nervi che si stiracchiano sotto la violenza dello sconvolgimento e della confusione. Intorno a lui, ogni cosa è buio. Un buio diverso da quello che ha sperimentato nel primo luogo che ha visto. Questo è un buio assoluto. Soffocante. Anche il suolo è fatto di buio, nonostante possa camminarci come si cammina su una superficie perfettamente liscia. Non si scorge alcuna differenza tra sotto e sopra. Non esiste orizzonte. Ci mette un pò a rendersi conto che qualcosa gli pesa in una mano. Abbassa gli occhi e scopre di stare ancora stringendo la spada. E’ pesante. La punta trascina per terra, fino al momento in cui la solleva per osservarla meglio. 
“Si chiama Nadir.”
Si volta di scatto. Samael avanza nel buio, fluttuando come se non avesse bisogno di camminare, gli bastasse scivolare nella sostanza.
“..Come l’orizzonte?”
“Il punto di congiunzione tra il vostro mondo e l’emisfero celeste invisibile.”
Riporta gli occhi sulla spada, osservandone i dettagli. Ci sono dei simboli intarsiati nella lama di cui non riesce a riconoscere l’alfabeto.
“Che lingua è?”
“Troppo antica perchè gli umani la ricordino. Nadir è una spada speciale. Si lascia sollevare solo da chi è prescelto per farlo.”
Di colpo, i suoi nervi logorati sembrano abbandonarlo. Ha uno scatto, un brivido di frustrazione. 
“Samael, vai dritto al punto. Mi hai fatto fare questa gita degli orrori solo per farmi sollevare una spada?”
“No. Voglio che la usi.”

Ross esita, preso in contropiede. Sogghigna, persino. Si guarda intorno nell’oscurità, per tornare con gli occhi sull’angelo.
“E contro cosa, contro di te?”
“No. Ho un regalo per te.”

La fronte gli si contrae, interrogativo, sospeso. Samael allunga un braccio, indica qualcosa oltre di lui. Lui si volta, confuso, verso un punto in cui prima c’era solo buio. Ora, una sagoma avanza. E ogni passo della figura verso di loro, il suo cuore affonda. Gli occhi gli si spalancano piano. Le labbra che si schiudono in un orrore a cui non riesce a dare voce. Un uomo sulla cinquantina, con capelli grigi e lunghi fino alle spalle gli sta di fronte. Una giacca di pelle, una maglietta bianca di cotone logoro e un paio di jeans slavati, tenuti su da una cinghia di cuoio con la fibbia in argento. Non gli servirebbero più di due secondo per riconoscerlo. Una cascata di ricordi che credeva di aver seppellito, tornano ad investirlo. L’uomo lo fissa negli occhi, per poi inginocchiarsi a terra, docile, ma senza smettere di guardarlo.
“Te lo ricordi, vero? Non lo vedi da molti anni, ma so che te lo ricordi. Avevi solo nove, dieci anni. Un bambino indifeso. Il bambino di cui avrebbe dovuto occuparsi. Lo pagavano per farlo, ma sapevi che non gli sarebbe importato. Ci eri abituato. Credevi ti avrebbe ignorato come facevano tutti. Ma lui no. Lui era diverso. Lui non ti ignorava.”
Ross sente le mani tremare, ogni muscolo del corpo viene attraversato da brividi violenti, gli occhi che rimangono fissi sull’uomo.
“La fibbia ti scorticava la pelle cosí a fondo che il tessuto dei vestiti era una tortura. Dovevi rannicchiarti su un fianco per trovare sollievo la notte, negli unici posti in cui non t’avesse frustato. T’avrebbe fatto diventare un uomo, diceva.”
“Stai zitto.”
Lo sibila con una violenza che lo raggela, la voce rotta dalla sensazione soffocante di qualcosa che inizia a riempirgli il petto. 
“Anche altre cose ti avrebbero fatto diventare un uomo. Come quando le sue mani ti stringevano il collo fino a che stavi soffocando, perchè amava vederti mentre ti dibattevi.”
“Stai zitto!! Taci!!”
Ora sta gridando. Con tutto il fiato che ha in gola.
“Ci sono molte cose che hai preferito dimenticare, hai preferito seppellire nel fondo di una scatola in cui non guardi mai. Quegli anni si sono consumati e tu ne hai fatto un unico indistinto territorio di nessuno, in cui non entrare mai. L’hai fatto cosí bene che hai scordato anche me. O almeno credi. Ma io so che non è cosí. Ti sei scordato di quella notte, in cui sono stato da te e ti ho detto cosa fare. Quella notte, in cui sei riuscito a difenderti, e lui ha capito che il suo giocattolo preferito era più speciale di quanto credesse. Ti sei dimenticato di quello che ti ha detto.”
Di colpo, l’uomo inginocchiato di fronte a lui parla. La sua voce emerge dal fondo della sua memoria come se fosse marchiata a fuoco da qualche parte nella sua mente.
“You little fucking monster. Avrei dovuto lasciarti sull’autostrada come si fa con le bestie.”
Non riesce a respirare. Prende aria e butta aria dal naso come un bufalo, avvolto da una sofferenza acuta, violenta. Una sofferenza che lentamente, si incendia. Diventa qualcosa di diverso, di molto più crudo, puro, terribile.
“Oh si. Finalmente. Lasciala uscire. E’ il momento, abbracciala.”
Rabbia. Una rabbia accecante che gli stringe le nocche contro il manico della spada, mentre il suo aguzzino sembra fissarlo serafico, imperturbabile.
“E’ il momento che regoli i conti. E’ il momento che scenda la giustizia anche sul suo capo, Ross. E’ il momento che paghi per quello che ti ha fatto. Cosí come hai salvato le anime di molta gente, è il momento che mandi la sua a farsi dannare.”
Lui scuote la testa, o tenta di farlo, nonostante sia talmente fisso sull’uomo da non riuscire a sentire nient’altro che una pulsione tremenda e meravigliosa, liberatoria.
“Avanti.”
Lo incita ancora Samael. Lui fa un passo in avanti, trascinandosi dietro la spada. L’uomo gli sorride debolmente. Respira cosí forte che la testa gli gira, mentre lentamente porta anche l’altra mano all’elsa di Nadir. 
“Come ruin and rapture.”
Come se fosse una formula magica, o una profezia, l’uomo scandisce quelle parole fissandolo. Lui sente il sangue ribollire nelle vene. Gli occhi del guerriero nella foresta gli riempiono la mente. Solleva la spada, le nocche bianche sotto lo sforzo di violenza con cui la abbatte sul collo dell’uomo, troncandogli la testa di netto, abbandonandosi ad un urlo che gli scuote le membra. Uno schizzo di sangue gli atterra sul viso, sui vestiti. La testa rotola ai suoi piedi, la bocca aperta in una smorfia di dolore che non ha avuto il tempo di spegnersi ed è rimasta impressa su di lui per l’eternità. Ha gli occhi spalancati che fissano il vuoto. La scossa di adrenalina che lo investe viene seguita quasi immediatamente da una di orrore. Lascia cadere la spada a terra. Il metallo rimbomba nel vuoto del luogo non luogo in cui si trovano. Ansima. Si affanna. Annaspa come un pesce fuori dall’acqua troppo a lungo che sta per morire, indietreggiando, lo sguardo che non riesce ad abbandonare la testa che ha mozzato.
Si volta, affamato, trova Samael a fissarlo. Accanto a lui, il guerriero della foresta. Sente le ginocchia farsi molli, mentre il demone avanza. Il guerriero, rimane a distanza. Ma di colpo, sembra realizzare come mai quegli occhi gli sembrino famigliari. Li ha visti migliaia di volte, riflessi nello specchio.
Atterra sulle ginocchia, forse perde i sensi. La certezza di aver allungato una mano per sorreggersi sulla tunica dello spirito, e di essersi trovato a fluttuare con il proprio urlo nelle orecchie.


Lo stesso urlo che lo ha svegliato di soprassalto, nel suo letto, madido di sudore.

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