Tuesday, January 24, 2017

Chaos Lock

Gli soffia in faccia un vento gelido. Squassa l'erba grigia di una collina impervia. Il cielo è denso di nubi grigie, che premono sulle loro teste. Camminano in fila indiana, uno dietro all'altro in una processione silenziosa e mesta, solenne. Sono vestiti di nero, tutti. Con degli abiti di una foggia che non riconosce immediatamente. Non sono completi moderni. Sono tuniche ricamate, dall'aspetto prezioso, non troppo distanti dai bei vestiti che ha visto addosso a Samael, a volte. Lui è in testa alla processione. Le dita strette intorno ad una torcia che sfrigola, in fiamme. Si gira, alla ricerca di altri volti. Appena alle sue spalle, china in un pianto silenzioso e sottile, c'è Iphigenia. La ragazza tiene gli occhi bassi e ha il volto pallido, i capelli sciolti in una tristezza silenziosa che sul suo viso di porcellana è quasi bella. Aggraziata. Un senso di angoscia soffocante gli riempie il petto come acqua di mare. Dietro ad Iphigenia, i capelli biondi di Austin. Il ragazzo guarda all'orizzonte, nemmeno temesse un attacco di arpie dal cielo. Ha un velo di timore negli occhi che cerca di ingoiare. Ma ci sono molte altre persone che camminano dietro di loro. Andrea. Sulle prime non la riconosce. La ragazza ha il volto coperto da un velo nero scosso dal vento come una nave alla deriva. Piange singhiozzi spossati, sorretta da un'altra donna. Una vecchia, che lui non riesce a riconoscere. Sente il proprio cuore battere più forte, come i tamburi di guerra. Connor cammina dietro alle donne e gli allunga addosso uno sguardo silenzioso. Forse preoccupato. Lo guarda come si guardano i pazzi, o i moribondi. Con la paura silenziosa di quello che sta per succedere. Dietro di loro, Red Face, Retribution. Nemesis. Una catena silenziosa di teste basse. Sente il respiro accelerare nello sforzo furioso di trovare un volto. L'unico che manca all'appello. Nella processione ci sono persino visi che non ha mai visto prima, come se un intero villaggio si fosse riversato in quella scarpinata votiva, i volti scavati dalle fatiche. 
"Dov'è lui?"
Lo chiede di colpo con un affanno furioso che gli si affossa in gola, verso Iphigenia. La bambina si ferma, atterrita da quella domanda, come se avesse di fronte un uomo che sta perdendo il senno. Lo sterno sottile si affloscia in un respiro con cui solleva la mano a posarla sul suo polso. Lo afferra, le dita che sollevano una gonna lunga e scomoda per arrampicarsi sulle scogliere. Lo usa per sorreggersi mentre stacca il tessuto dal fango e avanza. E' bellissima. Gli si accosta con lo sguardo pieno di pena, ma non sembra in grado di parlare. 
"Siamo quasi arrivati, manca poco." Mormora alla fine, con il tono di chi spinge un vecchio di nuovo in carreggiata, una lacrima le solca il viso. Con un cenno del capo, indica la sommità della collina, battuta dal vento. Con un brivido, lui ci scorge una struttura. Sembra una catasta di legno, regolare. Si rimette a camminare, tirandosi dietro la ragazza, la processione, il villaggio. Ma con una fretta diversa. Inciampa. L'orrore di una confusione in cui sembra ripescare memorie che non sapeva di avere, fino al momento in cui è abbastanza vicino da toccare la legna. 
E' una pira. Qualcuno l'ha fatta bella. Ci ha messo dei fiori. Ci ha messo dei nastri. Sente la folla dietro le sue spalle aprirsi a mezzaluna e farsi attorno alla struttura. Andrea sembra perdere sostanza nelle ginocchia. Una folata gelida lo investe, viene dal mare. Vede l'oceano aprirsi oltre il bordo di una scogliera. Ma in cima alla pira, il corpo silenzioso di Nicholas giace ben vestito e composto, in un immobilismo che non può che essere dovuto alla morte. Come uno schiaffo, il ricordo del momento in cui ha sentito la vita abbandonarlo mentre lo teneva tra le braccia gli si infila tra le costole. Lo ha visto. Era lí. Lo ha stretto mentre se ne andava. Ricorda la mano dell'altro sollevarsi e cercare il suo viso. 'Insieme.'
Non fa nemmeno in tempo a registrare il fatto che Nicholas sulla pira non è verde. La sua pelle è pallida ma naturale. E' un dettaglio che non registra nemmeno, schiacciato sotto la portata di un dolore lancinante. E' rabbia. Solitudine. Disperazione. Sente la propria voce gridare, le proprie dita aggrapparsi alla legna, graffiarla. Delle mani si allungano per provare a fermarlo, per tenerlo fermo. 
No. Sente quell'unica parola lasciargli il petto in grida orrende. No.
Alle sue spalle, la voce elegante e dolce di Iphigenia si solleva in un canto di cui non capisce le parole. E' una lingua che non riesce a ricordare, o a comprendere. O forse, le parole perdono significato nella furia confusa del suo dolore. Ma è una canzone triste. Forte. La ragazza sembra impegnarsi perchè non le tremi troppo la voce. No, le parole sono inglesi. 

Oh all the comrades that e'er I've had
Are sorry for my going away
And all the sweethearts that e'er I've had
Would wish me one more day to stay
But since it falls unto my lot
That I should rise and you should not
I'll gently rise and I'll softly call
Good night and joy be with you all.


Dita che lo afferrano. La furia gli si libera nelle vene, due ali immense si aprono sulla sua schiena, sbalzando via quelli che cercavano di trattenerlo. Sono ampie e forti, fatte di piume nere come la pece. Sente delle grida dietro le proprie spalle, ma non sono più urla di dolore. Sono urla di paura. Si volta a cercare gli occhi di Iphigenia. Li trova spalancati in un orrore confuso, fissi su di lui, come se non riconoscesse il mostro che ha davanti.



Si sveglia di soprassalto in un letto bagnato di sudore. Il petto squassato dalla consapevolezza di aver fatto un altro incubo. Sono frequenti, nelle ultime settimane. 
Una mano sale al viso. Ci respira dentro. Si massaggia gli occhi stanchi. Quando li riapre, intorno a sè riconosce il buio sintetico della propria stanza nell'Hive. Non è a casa. Non ci sono le luci colorate di China Town che filtrano dalle finestre. Non ci sono finestre. Accende la luce al neon, che ronza, instabile sulle prime. Si siede sulla branda, allungando la mano verso lo sportello accanto al letto. Dentro, c'è una bottiglietta di whisky economico. Piccola, di quelle che gli alcolisti nascondono nelle tasche. Prende un paio di sorsi dal collo, tossicchiando, rigirandosela tra le mani con un sollievo solo superficiale. 
Per un paio di minuti, non fa altro che fissare nel vuoto, pensieroso. Poi recupera il cellulare. Digita un numero che non chiama da troppo tempo. Suona per molto, a vuoto, prima che una voce impastata risponda dall'altro lato.

"Ross?"
"Ciao, papà."
Si sente il momento in cui il padre adottivo si mette a sedere, nella notte, nel suo letto. E' vecchio. La sua voce suona più vecchia di come la ricordasse dall'ultima chiamata.
"Stai bene?"
"Volevo sapere come.. andavano le cose a casa."
"E' vero quello che dicono alla televisione?"
Non sa come mai suo padre lo chieda a lui con quel tono.
"Si. E' vero."
C'è un lungo silenzio dall'altra parte.
"Noi siamo vecchi, in fondo. Non devi preoccuparti per noi."
"Credi che io sia stato un bravo figlio, per quel poco che lo sono stato?"
Sente il vecchio schiacciare un sorriso dall'altra parte del telefono.
"Ti sei sempre cacciato in un sacco di guai. Ma te ne sei anche sempre tirato fuori da solo. Tua madre diceva sempre che se avessimo adottato un cane randagio non sarebbe stato poi diverso."
Ma nonostante quello che dice, lo dice con l'affetto di chi ha appena fatto un complimento dal valore inestimabile.
"Immagino che le cose non siano cambiate poi molto."
"Dicono che i lupi siano bestie con un senso della famiglia più forte del nostro, Ross."
"Hai visto la partita?"
"No. Sto diventando troppo vecchio per tutti quei rumori che ci mettono intorno adesso. Le fanfare, i rapper, i fuochi d'artificio. Ai miei tempi al massimo c'erano le ragazzette con i pom pom. Erano tempi più facili. Sono felice di non avere la tua età."

Quando mette giù il telefono, è più solo di prima.