Tuesday, February 14, 2017

Moonlight II

Sono quasi quattro ore di macchina da Philadelphia alla distesa di alberi della Rothrock State Forest. E' partito all'alba, con la berlina della signora Chang. Una vecchia auto affidabile, che si trascina attraverso la foschia dell'inverno, la neve ancora depositata in parte sui campi e sulle distese di territorio della Pennsylvania. Ha imparato a memoria la strada che dalla statale principale si stacca sulla sinistra e si perde all'interno del bosco. Bisogna guidare almeno tre miglia sulla strada sterrata, prima di arrivare ad un'altra svolta. La via diventa quasi invisibile, deve guidare la berlina a passo d'uomo per non distruggere le sospensioni, prima che la sagoma solitaria di una casa in legno sepolta nel bosco di pini faccia capolino. Non è un casa grande. Ha una veranda, con una piccola altalena caracollante, la porta doppia con la zanzariera interna per le estati calde, il camino che fuma ora che in inverno è coperta di neve. Un ceppo con un'ascia che testimonia il fatto che qualcuno accende la stufa. E' anche consapevole che quel qualcuno lo ha visto arrivare. Forse lo teneva d'occhio con il binocolo da miglia di distanza. Sa che non ha riconosciuto l'auto e che la ragione per cui la porta non si è ancora aperta è che dietro una tenda, dietro ad una finestra, Tom aspetta con il fucile puntato che lui apra la portiera. E' la ragione per cui spegne il motore con cautela, prima di far scattare la porta dal lato del guidatore e fare capolino con le mani alzate bene, in vista. Si fa riconoscere, senza avanzare. Come aveva previsto, passano una decina di secondi, prima che la porta della casetta di legno si spalanchi e la sagoma solida, imperiosa e dura del vecchio Tom faccia capolino sulla soglia con un fucile da caccia tra le braccia, la canna puntata verso il terreno. Ha i capelli lunghi e grigi, il volto solcato dai segni del tempo. Per un paio di istanti, rimangono a fissarsi a distanza.
"Cristo. Stavo per piantarti un proiettile in mezzo agli occhi. Che macchina di merda hai preso?"


L'interno della casa di Tom è spartano come si potrebbe aspettarsi da un uomo come lui, ma inaspettatamente pieno di oggetti. Affastellati, impolverati. Fucili da caccia, teste di cervo, trofei, coperte fatte a mano forse dalla sua compagna prima che morisse. Era una donna nativa, di sangue Shawnee. Libri, la maggior parte in condizioni pietose. Selle di cavallo, ciotole di metallo e pentolini ammassati sulla piccola cucina a gas. E' la casa di un uomo solo per scelta e per destino. Il bollitore fischia. Tom mette una ciotola a terra. Due cani si avventano a divorarne il contenuto, avanzi di carne cruda. Sono entrambi cani muscolosi e poco avvezzi alla dolcezza, probabilmente dei meticci ma con qualche tratto da Rottweiler. Ross li guarda mangiare, mentre Tom versa del caffè color pece in due tazze sul tavolo di legno spesso.
"Sei venuto a salutarmi prima della fine del mondo?" Tom va dritto al punto, con un ghigno brutale e divertito.
"Qualcosa del genere."
"Il mondo è stato sull'orlo della fine da quando è stato creato. E' una vertigine a cui finisci con l'abituarti facendo questo lavoro."
Gli ricorda qualcosa di simile che gli ha detto Connor. Ma Tom non ha perso il senso di gravità. Nel volto dell'uomo si riesce a vedere un fuoco stanco e feroce, come se si preparasse alla guerra ogni mattina, anche ora che vive come un eremita. Per un istante, si ritrova a chiedersi se avrà gli stessi segni, da vecchio. Sempre che ci arrivi.
"Non sembri agitato."
"Nemmeno tu." Tom sogghigna, fissandolo e allungandogli la tazza. C'è una pausa di silenzio, prima che prosegua. "..Nah. Non ho niente da perdere in ogni caso. Ora mi preoccupo solo della mia casa, dei miei cani e del mio cavallo."
Il caffè è corretto con del whisky. Per qualche ragione non se ne stupisce. Lo apprezza, anche se non è ancora ora di pranzo. Il vecchio lo guarda con gli occhi di chi non ha davvero bisogno di sapere come mai se lo è trovato in casa.
"I ragazzi come la stanno prendendo?" Gli chiede. Austin, Iphigenia.
"Effie non ha paura di nulla. E' ottimista o smidollata, forse entrambe. Austin è arrabbiato e finge di essere un uomo." La risposta strappa a Tom una risata pacata, lieve, cruda.
"Sono gli ormoni. A diciotto anni fingevamo tutti di essere uomini."
"Credo di avergli spezzato il cuore."
"Meglio. Fa bene. Lo fa crescere. Meglio che glielo spezzi tu e che glielo spezzi spesso, piuttosto che se lo faccia spezzare da qualche stronzata priva di valore. Mio padre mi ha spezzato il cuore cosí spesso che l'ho odiato per vent'anni, prima di capire perchè lo faceva. Me lo spezzava a cinghiate."
"Non sono suo padre. Non lo sono mai stato."
"Non che abbia scelta. Non ha nessun altro." 
Le verità di Tom sono come il cuoio indurito. Prive di compromessi e di grigi. Sono assolute. I cani si scuotono e si leccano i baffi, prima di sgattaiolare ai suoi piedi e lasciarsi cadere a terra con la devozione delle bestie selvatiche.
"Com'è che non usi mai l'istinto?" Chiede di colpo l'uomo. Sulle prime rimane interdetto, non riesce a fare nulla se non fissarlo in silenzio. Tom lo fissa come se volesse tirargli fuori qualcosa dalla bocca a mani nude.
"L'istinto. Usi sempre quella cazzo di testa. Sei davvero un mistico di merda."
"Sono un medico." Ribadisce, come se fosse una spiegazione. 
Una risposta che sembra dare sui nervi a Tom perchè sputacchia uno sbuffo ironico e ringhia. "Ah!" Un verso di sprezzo, prima di piegarsi col busto verso di lui.
"Sei un fottuto demone. Smettila di rimanere dentro la tua testa tutto il tempo e prova ad ascoltare la pancia ogni tanto. Hai guidato quattro ore per venire a berti un caffè e chiedermi se sono preoccupato per la fine del mondo? Non lo sono. Contento? Puoi anche risalire in macchina e tornartene da dove sei venuto. Ma non sei qui per questo. Sei venuto perchè stai iniziando a capire come stanno davvero le cose e ti fa paura. Hai bisogno di un vecchio umano alcolista che vive in mezzo ad un bosco per dirti che ti conviene iniziare ad essere onesto con te stesso se vuoi davvero fare una qualche differenza. Hai talento, Ross. Usalo. Per quando avrai finito avrai tanto di quel sangue sulle mani che se usi troppo la testa, la perderai. Fallo solo quando serve davvero."
Rimane in silenzio a fissarlo. Riesce a deglutire un bolo di saliva ed è costretto ad ingoiare del caffè, ma la fronte si contrae. Sente gli occhi piccoli e scuri di Tom, come quelli dei cani, passargli attraverso il petto. Distoglie lo sguardo, si sente di colpo vulnerabile.
"Che cosa c'è, Ross?"
"Niente."
"Che cosa c'è?"
"Niente."
"Bullshits. Non hai paura per l'apocalisse. Hai paura per qualcos'altro. Cos'è?"
C'è un lungo silenzio. Lo fissa negli occhi. Tom sulle prime rimane sospeso, in attesa. Poi le labbra si distendono in un sogghigno amaro. Sempre più evidente, fino a che non diventa una risata bassa, gorgogliata e cruda. Scuote la testa, portando la tazza alla bocca.
"Ti sei fatto incastrare?" Lo dice usando le parole che si usano per parlare della polizia. Della prigione, dei nemici, quando ti catturano per giustiziarti, ma lui capisce cosa intende. E' a disagio e non riesce a negare.
"E' l'errore peggiore che uno come noi possa fare. Ma forse ti salva la vita. E' maggiorenne?"
"Vaffanculo, Tom." Una pausa. "E' Navajo. In parte." Non lo sa come mai sceglie di colpirlo sul vivo. Di affondare dove fa male, ma lo vede assorbire il colpo con il sogghigno che si fa più triste e dolce, scostando gli occhi. Lo vede masticare in silenzio l'onta di essersi fatto trovare con la guardia abbassata.
"Allora sei fottuto. Quelli della loro gente ti tengono per le palle. Non riesci più a fare a meno di loro." Lo borbotta a voce bassa.
Da qualche parte, sepolta in quella casa, c'è una vecchia foto della donna che gli ha toccato il cuore e ha finito col dannargli l'anima.


Sunday, February 12, 2017

Moonlight




Ha circa dodici anni. Servizi Sociali d'America lo ha riassegnato ad una nuova casa. Di nuovo. Non durerà molto, lo sa già. La casa è sovraffollata, sull'angolo di Jersey che si affaccia sull'Hudson, dalla parte che puzza. Fa freddo, non è ancora inverno ma le giornate si stanno accorciando e i ragazzini dormono con poche coperte, un lenzuolo. Qualcuno usa gli asciugamani per scaldarsi nelle ore dell'alba quando cala la temperatura. Sono in cinque, ammassati nella stanza. Un letto a castello, un letto singolo e due materassi. La camera è piccola e non si riesce a camminare sul tappeto di corpi. Una fabbrica di soldi per il sistema. Sente Luke, che ha qualche anno in più, masturbarsi sotto al lenzuolo, ribaltato dal lato opposto rispetto a lui credendo di passare inosservato. Non che a lui freghi nulla. E' troppo impegnato a stringersi in una posizione fetale per trattenere il calore. La mattina non riesce a lavarsi. Luke è uno di quei ragazzini benedetti dagli ormoni, a quattordici anni pare uno di diciotto. Lo spinge contro il lavandino e lui ci pesta la faccia con un suono sordo.

"Vattene, pezzetto di merda. Il bagno è mio."

"Non è giusto."

"Se apri ancora la bocca di spacco la testa, finocchio."

La porta gli si chiude sulla faccia dopo che viene spinto fuori dal bagno, seminudo. Non è certo della ragione per cui Luke abbia usato quella parola, a malapena sa cosa voglia dire, ma d'altra parte Luke la usa con tutti. Eppure lo disturba. Lo affascina e lo disturba, come quando ha visto un cane con una zampa sola trascinarsi nella periferia. Si veste in corridoio, in silenzio. I vestiti sono quelli di due giorni prima, ma riesce a rubare delle mutande pulite dalla stanza dei figli veri della donna che li tiene. Recupera uno zaino, scende in cucina, ruba del cibo in fretta, qualche pezzo di pane, prima che venga scoperto. Lo arraffa come le bestie affamate, anche perchè lo è davvero. Se lo infila tutto in bocca ed esce di casa. Non che gli piaccia andare a scuola, ma quantomeno gli danno da mangiare. Scuola è un altro posto in cui infilarsi e sopravvivere. Parla poco. Lo hanno detto tutte le insegnanti in ogni scuola in cui sia mai andato. E' un bambino silenzioso e maleducato, senza alcun senso del comportamento. Sottopeso, affilato ma fatto di muscoli nervosi. E' bravo a baseball. Corre veloce, più veloce degli altri. Forse perchè ha passato al vita a scappare da gruppi di ragazzini che volevano pestarlo. A volte lo prendevano, ma ha capito che loro si stancavano prima e quindi non fa altro che correre. E correre ancora. Correre più forte, un altro angolo, un'altra strada, senza guardarsi indietro fino a che non sente i loro passi rallentare, ansimando, fino a che si fermano. Lui sta ancora correndo.

Le insegnanti dicono che non è stato socializzato correttamente, come i cani del canile. Ma è intelligente. Quando studia, studia bene. Parla male, non si lascia disciplinare. Non piace agli altri ragazzini. Non è mai piaciuto a nessuno. E' uno di quei bastardi irlandesi di seconda o terza generazione, che figliano e poi abbandonano i bambini sulle scale della chiesa.

Insomma, a scuola non è una festa neanche lí. Luke va nella stessa scuola, una classe più in alto della sua. Non vede l'ora di andarsene da lí. Tanto Servizi Sociali d'America lo toglierà dall'affido se riesce a fare abbastanza casino da farsi lasciare di nuovo in mezzo alla strada. C'è solo un ragazzino che gli piace in quella scuola. Sta nella sua classe ed è molto timido. Parla poco, come lui, ma è gentile. Gli da sempre un pò del suo pranzo da portare a casa la sera. Si chiama Peter, ha una famiglia normale. La mamma di Peter a volte prepara due sacchetti del pranzo, uno anche per lui. Dev'essere bello avere una mamma come la mamma di Peter, l'ha vista una volta quando è andata a prenderlo. Aveva i capelli gonfi e luminosi nella luce del sole.

Quando arriva a scuola quel giorno attraversa il cortile in fretta, in silenzio. Luke sta con un gruppo di amici che hanno abbastanza paura di lui da fare tutto quello che dice. Li vede e li ignora, ma poi si accorge che stanno tutti ammassati intorno a qualcosa.

"Hey frocio! Frocio, guarda qui. Cazzo, voltati, guarda. Abbiamo fatto amicizia con il tuo fidanzato!"

Luke si sposta. Riesce a vedere la faccia di Peter sollevarsi dal pavimento del cortile, coperta di sangue. Le dita gli si stringono nel tessuto dello zainetto, che gli corre intorno alle spalle sottili. Non si avvicina. Non fa nulla. Si volta e prosegue. Sente gli occhi di Peter seguirlo, ma non si gira a cercarli. Però non cammina verso la classe. Cammina verso casa.

"Che c'è?? Scappi?? Sei un piccolo finocchio codardo, io lo sapevo! Giuro che in bagno non ci metti più piede! Ti rimanderanno in orfanotrofio per quanto puzzi!!"

La voce di Luke lo segue lungo la strada. Ma anche ora non si volta, fino a che non è abbastanza lontano da non sentirli più. Torna a casa. Sa che nella stanza dei figli veri uno di loro ha una mazza da baseball. Bella, l'ha desiderata molto, quando li guardava giocare in cortile. La donna è a casa, ma lui è sottile, sgattaiola fino alla stanza e prende la mazza. La infila in cartella, ne spunta una porzione come le spade dei samurai.

Non va in classe quel giorno. Si apposta ai campi da basket. Ci passano tutti dopo la campanella, per andare al parco, al vecchio centro commerciale e alle fermate degli autobus. Ci passa anche Luke e i suoi amici. Bisogna solo aspettare. Solo solo cinque ore.

E cinque ore passano. Lui ha tenuto lo sguardo basso e ha colpito l'aria con dei fendenti di mazza per valutarne il peso, il bilanciamento. E' una bella mazza e lui è bravo a baseball. La campana è suonata da cinque o sei minuti quando i ragazzini e le ragazzine iniziano a passare attraverso il campo da basket in cemento. Passa anche Peter. A testa bassa e tutto pesto. Lui lo guarda ma Peter non solleva gli occhi verso di lui. Li tiene bassi. Poi arrivano Luke e gli altri.

"Luke. Ehy, Luke?"


E' lui a richiamarlo. Si voltano tutti. Non solo Luke e i suoi scagnozzi, si voltano proprio tutti. Luke ride, anche i suoi amici, quando lo vedono avanzare brandendo la mazza.

"Ehy, frocio. Cos'è che vuoi fa-"

Ma non finisce la frase. E' una frase che non riesce a finire, per via del fendente violento e privo di esitazioni che Ross gli assesta sulle ginocchia. Un fendente calcolato per spezzargli la rotula. Un fendente carico di una forza inaspettata per la sua stazza e che gli provoca un gemito strozzato prima di fargli perdere l'equilibrio e mandarlo a terra. I suoi amici non ridono più, il cortile è immobile per la sorpresa. Peter ha la bocca spalancata e le mani stritolate intorno alle bretelle dello zaino. I presenti non hanno tempo di realizzare cosa stia succedendo, che Ross solleva di nuovo la mazza. La abbatte di nuovo su Luke, ma questa volta sul volto. Una volta. Due volte. Tre volte. Sono colpi brutali, in cui mette tutta la forza cruda della sua rabbia, la stessa che ha messo nel correre. Gli amici di Luke iniziano ad indietreggiare quando gli schizzi di sangue raggiungono le loro divise da 4 dollari e mezzo. Un brivido di paura attraversa i loro volti nel guardare un ragazzino che è la metà di loro massacrare qualcuno che rispettavano per pigrizia. Smette di colpire solo quando gli fanno male le braccia e si rende conto che Luke è ridotto ad una maschera tumefatta che lascia uscire solo un rantolo sofferente. Solo a quel punto, solleva la mazza insanguinata come un trofeo.

"How do you like me now, bitch?"

Lo urla. Fa un passo indietro sollevando gli occhi sulla massa paralizzata dei ragazzini del quartiere, su Peter, che sembra diventato una statua di sale. La mazza ancora tenuta in alto, solleva anche l'altro pugno.

"C'è qualcun altro che ha voglia di fare lo stronzo?"


Il silenzio. Lui lascia cadere la mazza a terra, va a recuperare lo zaino che ha abbandonato vicino al muro di cinta. Se lo rimette sulle spalle e ricomincia a camminare verso la fermata dell'autobus.


Di colpo, alle sue spalle, sente un boato. Ci sono fischi, applausi e urla. Peter gli corre dietro e lo affianca, con un sorriso che fatica a trattenere. Camminano in silenzio, senza dire nulla, fino a che l'amico chiede qualcosa con una strana adrenalina.

"Merda. E se lo hai ammazzato?"

"Lo spero."

Non lo ha ammazzato. Ma per il poco tempo rimanente prima che Servizi Sociali lo spostassero di nuovo, ha fatto la doccia tutte le mattine. Per primo. Luke, al bagno non si è mai avvicinato. Un giorno ha sentito la donna urlare, dicendo che puzzava di piscio ed era disgustoso. Ha sorriso, sul proprio materasso, fissando il soffitto.

Tuesday, January 24, 2017

Chaos Lock

Gli soffia in faccia un vento gelido. Squassa l'erba grigia di una collina impervia. Il cielo è denso di nubi grigie, che premono sulle loro teste. Camminano in fila indiana, uno dietro all'altro in una processione silenziosa e mesta, solenne. Sono vestiti di nero, tutti. Con degli abiti di una foggia che non riconosce immediatamente. Non sono completi moderni. Sono tuniche ricamate, dall'aspetto prezioso, non troppo distanti dai bei vestiti che ha visto addosso a Samael, a volte. Lui è in testa alla processione. Le dita strette intorno ad una torcia che sfrigola, in fiamme. Si gira, alla ricerca di altri volti. Appena alle sue spalle, china in un pianto silenzioso e sottile, c'è Iphigenia. La ragazza tiene gli occhi bassi e ha il volto pallido, i capelli sciolti in una tristezza silenziosa che sul suo viso di porcellana è quasi bella. Aggraziata. Un senso di angoscia soffocante gli riempie il petto come acqua di mare. Dietro ad Iphigenia, i capelli biondi di Austin. Il ragazzo guarda all'orizzonte, nemmeno temesse un attacco di arpie dal cielo. Ha un velo di timore negli occhi che cerca di ingoiare. Ma ci sono molte altre persone che camminano dietro di loro. Andrea. Sulle prime non la riconosce. La ragazza ha il volto coperto da un velo nero scosso dal vento come una nave alla deriva. Piange singhiozzi spossati, sorretta da un'altra donna. Una vecchia, che lui non riesce a riconoscere. Sente il proprio cuore battere più forte, come i tamburi di guerra. Connor cammina dietro alle donne e gli allunga addosso uno sguardo silenzioso. Forse preoccupato. Lo guarda come si guardano i pazzi, o i moribondi. Con la paura silenziosa di quello che sta per succedere. Dietro di loro, Red Face, Retribution. Nemesis. Una catena silenziosa di teste basse. Sente il respiro accelerare nello sforzo furioso di trovare un volto. L'unico che manca all'appello. Nella processione ci sono persino visi che non ha mai visto prima, come se un intero villaggio si fosse riversato in quella scarpinata votiva, i volti scavati dalle fatiche. 
"Dov'è lui?"
Lo chiede di colpo con un affanno furioso che gli si affossa in gola, verso Iphigenia. La bambina si ferma, atterrita da quella domanda, come se avesse di fronte un uomo che sta perdendo il senno. Lo sterno sottile si affloscia in un respiro con cui solleva la mano a posarla sul suo polso. Lo afferra, le dita che sollevano una gonna lunga e scomoda per arrampicarsi sulle scogliere. Lo usa per sorreggersi mentre stacca il tessuto dal fango e avanza. E' bellissima. Gli si accosta con lo sguardo pieno di pena, ma non sembra in grado di parlare. 
"Siamo quasi arrivati, manca poco." Mormora alla fine, con il tono di chi spinge un vecchio di nuovo in carreggiata, una lacrima le solca il viso. Con un cenno del capo, indica la sommità della collina, battuta dal vento. Con un brivido, lui ci scorge una struttura. Sembra una catasta di legno, regolare. Si rimette a camminare, tirandosi dietro la ragazza, la processione, il villaggio. Ma con una fretta diversa. Inciampa. L'orrore di una confusione in cui sembra ripescare memorie che non sapeva di avere, fino al momento in cui è abbastanza vicino da toccare la legna. 
E' una pira. Qualcuno l'ha fatta bella. Ci ha messo dei fiori. Ci ha messo dei nastri. Sente la folla dietro le sue spalle aprirsi a mezzaluna e farsi attorno alla struttura. Andrea sembra perdere sostanza nelle ginocchia. Una folata gelida lo investe, viene dal mare. Vede l'oceano aprirsi oltre il bordo di una scogliera. Ma in cima alla pira, il corpo silenzioso di Nicholas giace ben vestito e composto, in un immobilismo che non può che essere dovuto alla morte. Come uno schiaffo, il ricordo del momento in cui ha sentito la vita abbandonarlo mentre lo teneva tra le braccia gli si infila tra le costole. Lo ha visto. Era lí. Lo ha stretto mentre se ne andava. Ricorda la mano dell'altro sollevarsi e cercare il suo viso. 'Insieme.'
Non fa nemmeno in tempo a registrare il fatto che Nicholas sulla pira non è verde. La sua pelle è pallida ma naturale. E' un dettaglio che non registra nemmeno, schiacciato sotto la portata di un dolore lancinante. E' rabbia. Solitudine. Disperazione. Sente la propria voce gridare, le proprie dita aggrapparsi alla legna, graffiarla. Delle mani si allungano per provare a fermarlo, per tenerlo fermo. 
No. Sente quell'unica parola lasciargli il petto in grida orrende. No.
Alle sue spalle, la voce elegante e dolce di Iphigenia si solleva in un canto di cui non capisce le parole. E' una lingua che non riesce a ricordare, o a comprendere. O forse, le parole perdono significato nella furia confusa del suo dolore. Ma è una canzone triste. Forte. La ragazza sembra impegnarsi perchè non le tremi troppo la voce. No, le parole sono inglesi. 

Oh all the comrades that e'er I've had
Are sorry for my going away
And all the sweethearts that e'er I've had
Would wish me one more day to stay
But since it falls unto my lot
That I should rise and you should not
I'll gently rise and I'll softly call
Good night and joy be with you all.


Dita che lo afferrano. La furia gli si libera nelle vene, due ali immense si aprono sulla sua schiena, sbalzando via quelli che cercavano di trattenerlo. Sono ampie e forti, fatte di piume nere come la pece. Sente delle grida dietro le proprie spalle, ma non sono più urla di dolore. Sono urla di paura. Si volta a cercare gli occhi di Iphigenia. Li trova spalancati in un orrore confuso, fissi su di lui, come se non riconoscesse il mostro che ha davanti.



Si sveglia di soprassalto in un letto bagnato di sudore. Il petto squassato dalla consapevolezza di aver fatto un altro incubo. Sono frequenti, nelle ultime settimane. 
Una mano sale al viso. Ci respira dentro. Si massaggia gli occhi stanchi. Quando li riapre, intorno a sè riconosce il buio sintetico della propria stanza nell'Hive. Non è a casa. Non ci sono le luci colorate di China Town che filtrano dalle finestre. Non ci sono finestre. Accende la luce al neon, che ronza, instabile sulle prime. Si siede sulla branda, allungando la mano verso lo sportello accanto al letto. Dentro, c'è una bottiglietta di whisky economico. Piccola, di quelle che gli alcolisti nascondono nelle tasche. Prende un paio di sorsi dal collo, tossicchiando, rigirandosela tra le mani con un sollievo solo superficiale. 
Per un paio di minuti, non fa altro che fissare nel vuoto, pensieroso. Poi recupera il cellulare. Digita un numero che non chiama da troppo tempo. Suona per molto, a vuoto, prima che una voce impastata risponda dall'altro lato.

"Ross?"
"Ciao, papà."
Si sente il momento in cui il padre adottivo si mette a sedere, nella notte, nel suo letto. E' vecchio. La sua voce suona più vecchia di come la ricordasse dall'ultima chiamata.
"Stai bene?"
"Volevo sapere come.. andavano le cose a casa."
"E' vero quello che dicono alla televisione?"
Non sa come mai suo padre lo chieda a lui con quel tono.
"Si. E' vero."
C'è un lungo silenzio dall'altra parte.
"Noi siamo vecchi, in fondo. Non devi preoccuparti per noi."
"Credi che io sia stato un bravo figlio, per quel poco che lo sono stato?"
Sente il vecchio schiacciare un sorriso dall'altra parte del telefono.
"Ti sei sempre cacciato in un sacco di guai. Ma te ne sei anche sempre tirato fuori da solo. Tua madre diceva sempre che se avessimo adottato un cane randagio non sarebbe stato poi diverso."
Ma nonostante quello che dice, lo dice con l'affetto di chi ha appena fatto un complimento dal valore inestimabile.
"Immagino che le cose non siano cambiate poi molto."
"Dicono che i lupi siano bestie con un senso della famiglia più forte del nostro, Ross."
"Hai visto la partita?"
"No. Sto diventando troppo vecchio per tutti quei rumori che ci mettono intorno adesso. Le fanfare, i rapper, i fuochi d'artificio. Ai miei tempi al massimo c'erano le ragazzette con i pom pom. Erano tempi più facili. Sono felice di non avere la tua età."

Quando mette giù il telefono, è più solo di prima.